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Anteprima - Le nuove missive dal mondo di Barbara Garlaschelli coincidono col 10° Sidekar!

31/03/2021 00:01

Admin

Recensioni, home, news, Anteprima, Arkadia Editore, Speciale Sidekar Arkadia, barbara garlaschelli,

Anteprima - Le nuove missive dal mondo di Barbara Garlaschelli coincidono col 10° Sidekar!

Barbabra Garlaschelli - Lettere dall'orlo del mondo - Arkadia Editore - A cura di Gianfranco Cefalì - L'anteprima

Esce domani 1° aprile il nuovo libro di Barbara Garleschelli, "Lettere dall'orlo del mondo". Il numero 10  della collana Sidekar, di Arkadia Editore, curata da Ivana e Mariela Peritore e da Patrizio Zurru, lo ha recensito il nostro Gianfranco Cefalì, con la sua raffinatissima e sensibilissima penna.


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Barbara Garlaschelli

 

 

Lettere dall'orlo del mondo

 

 

Arkadia in collana Sidekar

 

 

L'anteprima

Le recensioni in LIBRIrtà


A cura di Gianfranco Cefalì

 

      Se fosse. Se questo libro fosse.

 

   Se fosse un’immagine. Sarebbe il disegno fatto dalla mano tremante di un bambino, su di un foglio bianco, candido. Che individua come primo segno un punto a caso sul foglio e lo rimarca con forza. Un grumo. Poi continuerebbe a usare la sua piccola mano come un compasso ubriaco e a delimitare uno spazio fatto da un contorno sinuoso e irregolare. Una macchia con un centro ben visibile. Questo sarebbe. Colorata, senza seguire particolari accostamenti, davanti all’infinita varietà cromatica della vita. Riquadri variopinti che rappresenterebbero qualcosa, qualcuno, che solo lui, lei, loro potrebbero capire. Un confine ondivago che si allontanerebbe e avvicinerebbe nel tempo, a seconda delle situazioni, dei riquadri, delle vite. E perché quel confine alle volte è importate quanto il centro. Irregolare e frastagliato come solo i bambini sanno fare.
   Se fosse un suono. Sarebbe la combinazione di quattro suoni distinti e uniti. Perché sarebbe corpo e anima. Sarebbero di due esseri umani. Due battiti e due respiri. Partiti insieme. All’unisono si ascoltano respirare e pulsare, poi gli eventi separano e i suoni si sciolgono. Si rimane da soli in ascolto. Prima armonia degli strumenti che si completano a vicenda, che creano quasi una melodia giocosa, poi stonature che si immergono nell’impossibilità sincera di suonare insieme nella stessa parte di mondo.

Se fosse un luogo. Sarebbe riduttivo individuarne uno solo. Sarebbe una camera. Una stanza d’albergo, un posto a sedere in un treno, su di un autobus, una piazza vuota, un paesaggio che scorre dietro un finestrino, una porta aperta, chiusa, socchiusa. Sarebbe una distanza tra due posti, sarebbe la storia dei luoghi visitati. Sarebbe una panchina che aspetta una vita, che accoglie anche le vite altrui, reali? Immaginarie? Sarebbero occhi in cui scrutare e ipotizzare vite. Sarebbe il mare, vasto, blu e profondo.

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   Se fosse una parola. Sarebbe inutile individuarne una sola. Amore sarebbe la prima, forse la più forte, quella gridata e sussurrata. Ma non basterebbe. Solitudine potrebbe essere un’altra. La solitudine data dalla mancanza di certezze. Ancora non basterebbe a capire. Potrebbe essere spazio. Tangibile, astratto sognato, che si allunga fino all’inverosimile e si accorcia seguendo il sentimento. Che si frappone, che ostacola una vita, due vite. Potrebbe essere viaggio. Un viaggio nella mente, un viaggio nella speranza, nelle difficoltà di un cammino che si vorrebbe fare insieme. Che si deve fare insieme. Potrebbe essere paura. Sì, la paura delle piccole cose, delle grandi cose. La paura di affrontare la vita monca, tranciata da qualcosa di importante. Allora potrebbe essere assenza. Di qualcuno, di qualcosa.

   Se fosse un oggetto. Anche qui, un solo oggetto non basterebbe, di sicuro sarebbero delle lettere, carta e inchiostro, vergate da caratteri e pezzi di storia, da sensazioni, emozioni. Sarebbero libri letti, riletti e brani imparati a memoria e trascritti con lucidità.

     Se fosse uno dei cinque sensi. Vorrebbe essere il sesto, impossibile. Sarebbe di sicuro il tatto. Anelare e bramare un corpo, i solchi e i nodi. Un oggetto, la carta con le sue increspature, la penna levigata.

Sarebbe soprattutto il tempo, che scorre, che striscia, che separa, che cerca di unire, che si dilata irreparabilmente da strapparsi per poi farsi ricucire. Il tempo necessario che come medico e medicina vorrebbe guarire, essere non soltanto una misura quantificabile del dolore, ma anche cura necessaria.

    Se fossero due persone. Sarebbero J. e Y. Poi, Miranda ed Edoardo. Perché nello scorrere del tempo e della speranza ci si identifica, si sposta l’attenzione cercando di trovarsi di nuovo, trasformandosi da personaggi a persone. 

 

     Se fosse scrittura. Sarebbe poesia.


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L'autrice

La meneghina Barbara Garlaschelli esordisce nel 1995 con O ridere o morire per Marcos y Marcos. Da quel momento non si è più fermata, aggiudicandosi nel 2004 il Premio Scerbanenco con Sorelle e con Non ti voglio vicino nel 2010 è selezionata al Premio Strega (ambedue con Frassinelli). Caduta dentro un no. Ballate è dello scorso anno (Morellini). Con Nicoletta Vallorani ha scritto lo sceneggiato radiofonico Mi chiamano Bru (andato in onda su Rai Radio 2). Scrive per  il settimanale “Confidenze” e cura il blog sdiario.com

 

Il libro

Titolo: Lettere dall'orlo del mondo

Editore: Arkadia in collana Sidekar
Pagg.: 100
Prezzo: € 13,00

L'attenta riflessione di Gianfranco Cefalì su "La metà del doppio" di Fernando Bermúdez

26/03/2021 23:01

Admin

Recensioni, home, evergreen,

L'attenta riflessione di Gianfranco Cefalì su "La metà del doppio" di Fernando Bermúdez

Fernando Bermúdez - La metà del doppioSpartaco Edizioni - La riflessione - Gianfranco Cefalì

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Fernando Bermúdez

 

 

La metà del doppio

 

 

Spartaco edizioni

 

 

Le riflessioni
Gli evergreen


      Dell’illusione di un presunto scrittore o dell’annientamento

A cura di Gianfranco Cefalì

 

   

    Un vuoto. Piccolo. Poi, sempre più grande. Una voragine. Un sentimento. Forse due, forse tre, forse… dubbio, paura, codardìa. Forse, parola che esprime il dubbio, il dubbio che porta a una paura, la paura che porta all’essere codardo. Perché? Sincero. Devo esserlo. Senza attenuanti. Purtroppo.

   Inizio. La metà del doppio. Ritorno all’origine. Già dal titolo. Bellissimo. Un superlativo, che a me non piacciono i superlativi. Ma rende bene l’idea. Unico davvero. Dicevo dei sentimenti, dico, rifletto, tartaglio, non escono parole. Sì, mi sono bloccato. Un effetto straniante alla fine del primo racconto. Come fare? Come continuare? Questo libro mi ha inibito. Perfezione, una perfezione a cui tendere. Una perfezione che io non sono mai riuscito a trovare. Il dubbio. Ho dubitato di me stesso. Come autore scrittore. No. Non sono uno scrittore. Questo testo di Bermúdez lo conferma. Sì, perché ci sono quei libri che ti mettono con le spalle al muro. Che ti fanno dubitare. Che ti mettono paura. Non fraintendete. Anzi, sono sicuro che nessuno di voi abbia frainteso. Non c’è bisogno neanche di specificare. Forse, sempre mangiato dal dubbio, non dovrei neanche scrivere. Già, scrivere. Ma cosa? Ora mi sono fermato. Voi non potete saperlo. Sono qui, davanti lo schermo da dieci minuti. Ho scritto solo… Ora mi sono fermato. Voi non potete saperlo. Sono qui, davanti lo schermo da dieci minuti. Ho scritto solo. Mi riprendo. C’è un però.      

 

   C’è un ma. Voi direte, quanto sei arrogante! Sempre a dirci quello che noi pensiamo! No. Ma la domanda è giusta. Se c’è un però o un ma, ci saranno delle obbiezioni da fare. Sì, vero. Ma. Non nel senso che potreste intendere voi. Il dubbio ancora una volta. Questo tarlo che è cresciuto in me ha una storia lunga. Dicevo il ma e il però. Dico: è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Espressione anche questa che non gradisco, luoghi comuni e frasi fatte. Utilizzate fino a stordirci, perdono di reale significato. Usiamo la metafora della corsa. No, non rende. Ne cerco un’altra. Percorso, un lungo percorso che mi ha portato come dono quelle sensazioni che esprimevo prima.

    Sì, perché la colpa non è solo di questo libro, ma di tutte le letture che ho fatto in quest’ultimo periodo, dall’anno scorso fino a oggi, fino a domani. Da ragazzo a vecchio. Dicevo… tutta l’acqua è sul pavimento, dovrebbe essere trasparente, essendo acqua. Lo è. Cristallina come la scrittura dell’autore. Sono io che sono rimasto fradicio e sporco. Fradicio e sporco per aver letto tutti questi bei libri. E quest’ultimo ha fatto tracimare tutto. Già vacillavo parecchio sotto i colpi inferti da quei libri che avevano lasciato su di me segni indelebili, non sto qui a citarli tutti, basterebbe andare a vedere le mie ultime “impressioni”, non recensioni, ma impressioni, per capire che tutti questi libri mi hanno insegnato tanto. Bermúdez mi ha fatto crollare definitivamente. A terra ripenso a quello che ho scritto. A terra penso se mai dovessi scrivere. A terra al momento direi di no. Ancora con le spalle al muro, sì, perché nel frattempo sono riuscito a fare forza con le braccia e mi sono fatto sorreggere proprio dall’opera di Bermúdez, vi dico che dopo la lettura di questo libro mi sono accorto che la letteratura non è per tutti, ma io posso parlare solo per me. La scrittura, la letteratura non mi appartengono. Un po’ triste ma felice accetto tutto questo. Non sono preoccupato. La sana invidia che dovrebbe scattare in me per spingermi a superare me stesso non esiste. Non esiste perché sono contento di aver letto questo libro e tutti gli altri. Perché ho capito.

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   Un alone persistente, il dubbio se continuare o meno a provare a scrivere, la paura di non esserne all’altezza, la vigliaccheria nel non volerci provare. Almeno per il momento. 

   Direte voi… lo so, sto diventando stucchevole. Sempre a dirvi cose. Ma la domanda e le vostre obbiezioni anche in questo caso sono più che legittime. Dicevo… direte voi… non ci hai detto nulla del libro sei stato vacuo e assolutamente ci hai parlato solo di te e della tua presunta incapacità di scrittore! Avete notato? Sì, lo avete notato sicuramente. Vi ho fatto dire presunta incapacità! Come a voler lasciare a voi un dubbio. Il dubbio sul mio reale valore o capacità. L’ho scritto solo per instillare in voi il dubbio, ma principalmente per instillarlo in me. Poi... Lo avete detto così? Tutto d’un fiato? Io l’ho immaginato così. Come darvi torto? Avete perfettamente ragione. So anche questo, quel perfettamente della frase precedente potevo evitarlo. Non ho scritto tanto sul libro. Ne siete sicuri? Io ho tanti dubbi. Voi? Cosa c’è di più incantevole che rimanere senza parole davanti un’opera d’arte?

No, non la sindrome di Stendhal, ma poco ci manca. Direte voi… ancora con questa presunzione di sapere tutto. Voi direte che esagero, che non mi credete. Fate bene, non credetemi e andatevi a leggere questo libro.

   Illusione, dal titolo, direte voi? Cosa c’entra? È come un gioco di prestigio, lo fanno davanti i vostri occhi, sapete che è finzione, vi spiegano il trucco. Ogni volta rimanete con la bocca aperta e aspettate il prossimo numero. Ecco questo è scrivere. Questo è Bermúdez. Questo mi annienta.

Letteratura, immaginifica, metaletteraria in un continuo giocare con il lettore, intervalli di tempo e di spazio, asciutta, riflessiva, con una carica emotiva forte, pronta a deflagrare, sotto le macerie troverete me, ma… sì c’è sempre un ma nella vera letteratura, scommetto che sarete, per la prima volta, contenti di aver assistito a una esplosione, non semplici fuochi d’artificio, solo estetici e fini a sé stessi e ai nostri occhi, che alla fine lasciano il buio, attoniti per lo spettacolo ma pronti per la prossima manifestazioni di luci e ombre. Le vostre orecchie e la vostra mente invece sentiranno distintamente il boato, lo scoppio. E Le orecchie vi fischieranno e rimarranno tappate per molto tempo. Intontiti, felici.

Ne parleremo una volta che avrete finito di leggerlo. Solo allora. Per il momento non mi leggerete più. Per il momento non scriverò più.

 

Il volume è stato curato e tradotto da Gianni Barone, che ne ha scritto anche la postfazione.

Un plauso a Spartaco edizioni per aver portato questo autore in Italia.


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L'autore

Fernando Bermúdez è  nato  a  Buenos Aires nel 1962. Vive a Stoccolma dove ha  riunito un circolo di autori latinoamericani lì residenti, il Grupo Estocolmo, e vi coordina laboratori di scrittura. È docente di Linguistica moderna  all’Università di Uppsala. È membro della Writers Society Sweden.

Con «La metà del doppio» ha vinto il Premio Cortázar nel 1994 e il Premio Juan Rulfo nel 1997.

 

Il libro

Titolo: La metà del doppio
Edizioni: Spartaco

Pagg.: 140

Prezzo: € 14,00

 

 

 

Le forme della lingua per definire sensatamente il sentimento più grande nella silloge di Giuseppina Biondo

26/03/2021 05:00

Admin

Recensioni, home,

Le forme della lingua per definire sensatamente il sentimento più grande nella silloge di Giuseppina Biondo

Giuseppina Biondo - La contadina - Puntoacapo editrice - L'angolo della poesia - A cura di Paolo Pera

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Giuseppina Biondo

 

 

 

La contadina

 

 

 

Puntoacapo

 

 

 

L'angolo della poesia


 

A cura di Paolo Pera

 

   La contadina di Giuseppina Biondo, (Puntoacapo Editrice, 2020), è una silloge di poesie d’amore e di mutamento, impreziosita per di più dalla prefazione di Giuseppe Conte.

 

   L’animo della poetessa si manifesta anzitutto nella prima sezione, dov’è presente un manifesto di femminilità amorosa di fronte al quale chiunque avesse una cultura soltanto al maschile – rispetto alla poesia d’amore, appunto – comincerebbe a interrogarsi: la donna dunque non è solo l’oggetto verso cui si indirizza l’amore, ma è soprattutto il soggetto che lo coglie e che lo restituisce! Con una versificazione per lo più libera, ma giusta e godibile (caso genuinamente raro rispetto al vastissimo uso contemporaneo della forma aperta…), la Nostra si professa in alcuni manifesti: «Io non voglio sapere se sei innamorata, / o di chi, ma cosa ti innamora?», essa sembra aspettare questa domanda. La Biondo cela il proprio sentimento, lo custodisce come una cosa caduca, se lo riserva per sfruttarlo lei sola: «Sono certa che tu non sappia del mio amore / ed è proprio questo il mio intento: che tu non lo sappia / e che io ne scriva poesie». Anche la relazione tra due persone, coi rispettivi cellulari a mo’ di bacialè, risulta interessante: «Mi hai inviato un audio messaggio nella chat, / mi è andato il sangue alla testa prima ancora d’averlo ascoltato». Poi, quasi in una lotta contro gli antichi costumi in amore, la poetessa dice: 

«Non dire “Ti ho” a chi ami, / di’ piuttosto “Chi amo mi ha”. / Ti ho, a pronunciarlo, non sembra l’inizio di Ti odio? / Mi ha, a pronunciarlo, non sembra l’inizio di Mi ama?» Insomma, quelle di Biondo sembrano vere e proprie ricerche sul significato del sentimento che tutto raccoglie e tutto muove, almeno nella sua realizzazione entro l’umano. Questa prima sezione si dimostra poi una reale storia d’amore, conclusasi con l’ultima poesia in una sorta di repentino cambiamento nella Nostra: «Non potevi saperlo, che divengo spietata, / se non desidero. / / Ma questo non lo sapevo neppure io: / che divengo spietata, se non scrivo belle poesie / d’amore».

   Entrando nella sezione dei mutamenti e delle distrazioni incontriamo sùbito la protagonista del nostro testo: la contadina che balla e salta e vive gioiosamente la propria infanzia scavando la terra1 e sentendosi parte di questa.

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Biondo confessa che questo poemetto (posizionato nell’ideale metà del libro) nasce da un sogno, essendo pure l’opera più “anziana” della raccolta: si tratta difatti di una visione, un cucciolo di donna (di kiplingiana memoria) quasi come il Dante2 del primo Canto dell’Inferno fugge dall’inquietante pantera (nera fiera, forse la Morte?) saltando di zolla in zolla, di strofa in strofa, a suon di ritornello nel quale ogni volta la pantera torna. Quest’ultimo, il ritornello, sembrerebbe avere la stessa funzione della “scappatoia” dantesca (lo svenimento), utile a scendere i gironi. Biondo – ovvero la contadina del proprio universo – sembra descrivere le mutazioni della bambina che fu, mutazioni che a turno la uccidono, o che le chiedono di sacrificare sé stessa per poter divenire altro: per poter crescere… «Divenni albero all’improvviso / e si compì la mia metamorfosi»: è così che quest’accumulo di uccisioni della contadina, non tanto da parte della bestia nera quanto da Biondo stessa, la condannano al girone dei suicidi, là dove essere 

pianta – pur sembrando una dannazione – è invero una grazia, il ben poco mascherato desiderio della nostra contadinella.

 

   Procediamo allora tra minori mutazioni per arrivare poi alle distrazioni conclusive. Quella di noi tutti sembrerebbe essere il mal pensiero che porta gli uomini a “falsificare” il pianeta: «Qualcuno deve averlo capito sin dall’inizio del tempo, / qualcuno deve averlo saputo; / che tanto ci saremmo distratti dal pensiero / della morte che avremmo ucciso il nostro / ambiente».

   «Tutto è un distrarsi / in finita attesa», dice poi la nostra contadina-Biondo (su tutt’altri piani di pensiero): «Tutto, tutto lo è, tranne forse la malattia», questo perché soffrire e morire ci ricorda d’essere natura? Una natura che ha ammalato la Natura? Se tutto è distrazione, pure l’amore – fin troppo reo d’averci elevato dalla condizione di uomini, d’averci fatto dimenticare la nostra labilità! –, il solo ricordo della fine ci farà dunque avere cura del tutto che abitiamo. Pure se i suoi attuali scompensi già ci dànno la necessaria preoccupazione…

 

Note

«Sono quella che scalpita, / quella che medita, / quella che semina, / quella che raccoglie».

2 Come già suggeriva Giuseppe Conte...