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Leonardo Lodato - Cielo la mia musica! - Fondazione Domenico Sanfilippo Editore

28/02/2020 23:01

Admin

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Leonardo Lodato - Cielo la mia musica! - Fondazione Domenico Sanfilippo Editore

Leonardo Lodato Cielo la mia musica! Fondazione Domenico Sanfilippo EditorePaesi Etnei Oggi - Febbraio 2020 Le interviste  In partnership con Paesi Etnei Oggi

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Leonardo Lodato 

Cielo la mia musica! 

Fondazione Domenico Sanfilippo Editore


Paesi Etnei Oggi - Febbraio 2020
Le interviste

 

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«Come dico nel libro, citando i Nuovi Briganti, “sono un fottuto terrone”», è così che Leonardo Lodato, nato a  Palermo ma che ha vissuto gran parte della propria vita a Catania, con una piccola pausa a Ragusa, tanto bastatogli per sposarsi e lavorare per La Sicilia, replica alla mia domanda su “Cielo, la mia musica!” da qualche giorno in distribuzione per i tipi di Domenico Sanfilippo Editore, dove invita 12 musicisti isolani a rispondere ai suoi interrogativi. Perché, non risponde il medesimo? «Li avrei potuti raccontare io – mi dice – ma mi sembrava un’idea eccessivamente autocelebrativa. La cosa bella, invece, mi è sembrata proprio quella di dare spazio al linguaggio di ognuno degli intervistati».

Ho sentito forte la necessità di porgli un’altra domanda tra il serio e faceto, e la brillantezza del giornalista e dell’uomo, conosciuto per la sua non indifferenze cultura lettero-musicale, alla domanda sull’accademia della crusca nella diatriba arancino/arancina, non si è fatta attendere. Gioioso e preparatissimo, che già un paio d’anni antecedenti la maturità classica scriveva su L’Ora, risponde: «Mi definisco un apolide con le radici ben piantate in Sicilia, non sono uno di quelli che disprezza la propria terra per poi fregiarsi del titolo di siciliano doc quando si trova fuori. Comunque si parla di arancina vero?».

 

Scopriamo anche un lato ultra rock, per dirla alla Celentano, la passione forse smisurata – ma cosa ne posso capire io? – per i Motörhead, band della colonna sonora della sua vita: «Li ascolto da quando avevo 12 anni. Un mio compagno di scuola, Ugo, portò a casa un LP di questa band. Fu un colpo di fulmine. Da quel momento i Motörhead hanno accompagnato la mia vita passo dopo passo, ogni loro canzone è legata a un episodio più o meno importante della mia vita, matrimonio compreso, dove chi ha officiato le mie nozze, nella sua prolusione ha parlato più di Lemmy Kilmister, il leader della band, che non di me». Ma di Leonardo Lodato c’è altro: la realizzazione di alcuni documentari e un libro a quattro mani con il suo istruttore di immersioni Guido Capraro, dedicato alla storia drammatica del Regio Sommergibile Sebastiano Veniero. In quel paradisiaco giardino della provincia etnea dove risiede, mi racconta di sfide: «Una scommessa con me stesso. Il piacere di scoprire un mondo totalmente nuovo. Mi sono immerso la prima volta spinto da alcuni colleghi. Non sono più uscito dall’acqua. Ho conseguito tutti i brevetti fino a “laurearmi” toccando i – 100 metri di profondità».

 

 

E ancora a chiedergli, come è diventato giornalista?
«Lo sono sempre stato, risponde. I primi regali di mio padre sono stati “La piccola tipografia”, una collezione di dischi dei Beatles, qualche numero di Topolino, penne, pennarelli e rulli di carta da telescrivente a volontà. Shakera il tutto ed ecco come sono diventato giornalista…»

 

Cielo, la mia musica!, il primo libro pubblicato per Domenico Sanfilippo Editore. Incroci lavorativi: emozione?

«Sì, è il primo, e sono felice di averlo realizzato per questa collana che raccoglie le testimonianze di giornalisti illustri che hanno avuto o hanno ancora a che fare con la redazione de La Sicilia. Il mio è, tra l’altro, il primo volume che esce in occasione delle celebrazioni dei 75 anni del giornale, la cui data cade il prossimo 15 marzo».

 

Oltre la magia della musica, quale argomento chiave nasconde “Cielo, la mia musica!”?

«Argomento chiave è la vita. Leggendo alcuni passaggi ci si accorge di come, in fin dei conti, anche episodi negativi possano dare l’input necessario per costruire qualcosa di buono. Come diceva l’analfabeta Chance il Giardiniere, nel film “Oltre il giardino”, “ci sono le stagioni. C’è l’inverno, dove tutto è morto, ma poi arriva la primavera, e tutto nasce a nuova vita” e, se la vogliamo buttare in musica, non posso fare a meno di citarti il grande Fabrizio De Andrè: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”. Ecco, la scommessa della nostra vita è quella di far nascere un fiore non di nascere tra i diamanti. Altrimenti sarebbe tutto troppo facile».

 

Encomi, premi, concorsi: come vivi queste realtà? E cosa ne pensi del caso della collega Giangravè, vincitrice del premio “Augusta”, mai assegnatole?

«Non voglio entrare nel merito di un episodio davvero fastidioso. Se proprio vuoi un giudizio su quel che è accaduto alla collega che, peraltro, conosco, credo che sia l’ennesima dimostrazione di come questo nostro mestiere venga considerato da molti, e purtroppo anche dall’interno, in maniera distorta. Siamo dei privilegiati, facciamo un lavoro che ci piace ma è pur sempre un lavoro…»

 

 

Nella tua carriera quali personaggi tra quelli incontrati ti hanno più stupito?

«Così, a caldo, ricordo un fantastico Severino Gazzelloni dalla cortesia insuperabile. Il suo sorriso, il modo di raccontarsi, una persona d’altri tempi. I complimenti di Fiorella Mannoia, di Lucio Dalla e di Antonella Ruggiero. Diciamo che l’educazione e la cortesia degli artisti sono inversamente proporzionali al loro status di “grandi”. Meno contano più si danno arie».

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Mi racconti un aneddoto piccante?

«Quella volta che una cantante italiana, tra le più importanti, mi fece telefonare dal suo impresario perché voleva assolutamente che andassi a cena con lei… No, non ti dirò mai com’è andata a finire e soprattutto non ti dirò mai chi è…».

Famiglia, lavoro, rete amicale, quale l’importanza di questi tre “diagonali”?

«La famiglia è tutto. Nel mio caso, per il lavoro che faccio, credo che la mia famiglia, strettamente intesa come mio padre, mia madre e mio fratello, sia stata decisiva nelle scelte che ho fatto. Oggi c’è anche mia moglie che mi ha sempre assecondato in tutte le mie esigenze di un mestiere che non conosce orari, feste. 

Una santa? Beh, ha già una beata in famiglia, quindi la strada è spianata. Sul lavoro ricordo Carmelo Bene quando asserì che non capiva i disoccupati. “Non fanno una cazzo tutto il giorno e per giunta si lamentano!”. Scherzi a parte, il lavoro è una sorta di training motivazionale. Non è importante quale sia il lavoro ma svolgerlo nel migliore dei modi. Puoi essere un intellettuale, un accademico, un manager o uno spazzacamino, se ami il tuo lavoro e lo fai con dignità, torni a casa comunque soddisfatto. Per me, dal presidente della Repubblica all’ultimo chiodo della carrozza, hanno tutti pari dignità. Gli amici, quelli veri, non li vedo o non li sento spesso. Ma so che ci sono».

 

Che consiglio si può dare a chi vuole fare il passo definitivo per abilitarsi alla professione di giornalista?

«Il passo definitivo? Cioè buttarsi dalla finestra? Scherzo. Se parliamo di carta stampata, questo, ormai, è un mestiere con la data di scadenza ben impressa sul fondo. Hai 18 anni, o nei hai 46, devi cercare altre strade, le vie del web sono infinite ma devi essere bravo a capire prima degli altri come utilizzarlo, conservando, comunque, lo spirito deontologico di questo mestiere». 

 

La serietà nell’impegno su qualcosa: sino a che punto tutto è necessario per vivere bene?

 

«Tutto o niente. Possibile che non riusciamo ad accontentarci?
A volte bisognerebbe imparare a spogliarci del superfluo.

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No, io non ci riesco, vorrei ma è una prova troppo difficile da superare. Filosoficamente parlando, partiamo dall’essere tabula rasa e procediamo lungo la strada della vita riempiendo le caselle. Ma di cosa? Di conoscenza? Di beni materiali? Chi pratica Yoga sa che la conoscenza deve servirci a prendere coscienza di quel che realmente ci serve e, ti assicuro, che basta davvero poco per vivere un’esistenza serena. Ecco, noi spesso sbagliamo strada perché cerchiamo la felicità e non la serenità».