A cura di Paolo Pera
Ciao Elisa, benvenuta! Dunque, hai esordito quest’anno con la silloge Io qui ci vivo (Gattomerlino Edizioni), spiegaci il significato del titolo; riguarda l’amore per le montagne vicino a cui vivi? Quant’è presente la montagna nella tua poesia?
«In realtà il territorio è presente in contrapposizione a un sistema mondo globalizzato, che vivo sulla mia pelle – che viviamo, sarebbe più giusto dire – sia come consumatrice di merci che traslocano da un oceano all’altro sia come parte di una struttura amicale e affettiva che è ormai dispersa in continenti diversi. Il mio essere locale, ferma mentre gli altri si muovono e comunicano con me da sfondi e fusi orari diversi, è il senso del titolo, che riprende una poesia diciamo di protesta sulla sterilità della visione nostalgica dell’ambiente montano, anziché attiva, ma è anche il senso del libro. Marco Palladini, autore romano che definirei quasi postcontemporaneo e amo molto, ha usato la definizione glocale e la trovo calzante.»
Come inquadreresti la tua poetria? Chi l’ha ispirata? Che compito assegni alla tua scrittura? Un po’ di tempo fa mi dicesti di ricercare suoni duri, spiega…
«La poesia è comparsa da sola a dire il vero, non l’ho cercata, tanto è vero che ho iniziato a scriverla tardissimo e facendo un passaggio inverso rispetto a quello usuale che va da poesia a prosa. L’ho pubblicata prima della prosa, ma l’ho scritta dopo un romanzo, che uscirà il prossimo anno, e dopo l’esperienza giornalistica locale. Se dobbiamo individuare un momento in cui ho iniziato a pensare alla possibilità della poesia semmai è stato quando al premio Calvino, nella scheda autore, si sono soffermati sulla mia voce lirica, che ignoravo. È stato come guardarsi allo specchio per la prima volta. E contemporaneamente sono entrata e uscita da più lavatrici, vita, linguaggio, la poesia è il risultato di questa centrifuga. Anche qui, recentemente, parlando con un poeta nigeriano, Dami Ajayi, e usando il termine lavatrice a proposito dell’esperienza ospedaliera, lui mi ha ricordato una frase usata da Frantz Fanon prima di morire di leucemia, giovanissimo: ‘They put me through a washing machine last night/Questa notte mi hanno buttato in una lavatrice’.
Quanto all’assegnare compiti alla poesia è complesso: non ho tessere di partito, ma mi ritengo una persona abbastanza impegnata, diritti civili, femminismo, politica, ambiente, e le mie letture passano anche da tutte queste tematiche. È naturale che la mia poesia ne risenta, ma non è niente di prefigurato, anzi quando ci provo diventa pura retorica e posso buttare ogni verso andato accapo. A volte riflette i luoghi in cui vivo e lavoro, altre è capitato di scrivere poesia dopo una riunione di condominio, hai delle parole che rimbombano nella testa e a un certo punto hai bisogno di fissarle per non perderle. Poi ci lavori un po’ su per pulire quello che non serve, tutto qui.»
So che ti stai cimentando nell’arduo compito del traduttore, ce ne vuoi parlare?
«Una casualità anche questa o meglio il risultato dei mondi che ho attraversato. Ho studiato linguistica all’Università e ho un’attenzione ai suoni, alle consonanti in particolare e, per forza di cose, alle lingue straniere. Ma conosco solo inglese e francese e tu saprai che un lettore assiduo dopo un po’ va a cercare l’introvabile e l’introvabile non è tradotto, soprattutto in poesia. Se poi incastri il tutto con la mia passione recente per la letteratura africana – quella antica è per gli autori ebraici – finirai per andare a cercare raccolte da collezionisti privati e dalle librerie nigeriane locali e lavorarci sopra a lungo. Così è successo con Lola Shoneyin, autrice nigeriana straordinaria che organizza il più grande festival letterario africano a Lagos e nuora del premio Nobel Wole Soyinka – in Italia si trova il suo ‘Prudenti come serpenti’ tradotto da 66thA2ND -, ha scoperto che avevo trovato la prima edizione di una sua vecchia raccolta e mi ha scritto, credo perché stupita dal modo in cui l’avevo recuperata. Ne ho approfittato e ho chiesto di poter tradurre alcune sue poesie di ‘So all the time I was sitting on an egg’ per L’Estroverso. Con Dami Ajayi, altro poeta nigeriano, è andata più o meno allo stesso modo. Ho trovato una sua raccolta, insieme ad altre, ho creato un contatto e ne è nata una conversazione a distanza sulla sua poesia, sulla Nigeria e sullo stato in generale della poesia che porterò con me per tutta la vita. Il fatto è: se nessuno legge poesia, allora perché non tradurre quella nigeriana (e domani forse quella ghanese)? Come mi ha detto Dami Ajayi, che cito di nuovo, ‘per quanto la poesia sia ancora un’arte controversa, non siamo ancora arrivati ad avere penuria di poeti. La poesia abbonda perché la poesia è davvero una conseguenza del linguaggio e dell’umanità. Non importa se il sostegno istituzionale stia diminuendo, l’importante è che si continui a fare ed è quello che succede’. È lo stesso motivo per cui mi ostino a tradurre autori che qui sono sconosciuti. Importa lo slancio.
Cosa significa fare poesia oggi? Quali poeti vanno letti insindacabilmente?
«Insindacabilmente nessuno, nel senso che il mondo è talmente vasto che se tu citassi una schiera di poeti italiani come obbligatori io potrei fare altrettanto con altri a te del tutto sconosciuti e potremmo continuare all’infinito. L’importante è leggere buona poesia e non restare fermi in un unico posto, la differenza è il fattore principale della creatività (oltre al dolore).
La poesia che interessa a me sa assorbire il presente, ma anche questo non è un diktat. Ho letto anche poesia cinese del 700 e ci sono voci, magari intimiste, che sono liriche in reazione al contemporaneo e che in qualche modo però ne portano traccia e hanno una propria valenza.»
Cosa significa essere poeta per una donna?
«Forse fare qualcosa che non interessa a nessuno o che viene considerato qualcosa di simile al contare i petali di una margherita, m’ama/non m’ama. Ma che importa? Appunto, peccato che ci sia in Italia un ritardo di comprensione della potenza della parola poetica, che credo sia dovuto all’eccessivo riferimento ai classici – ‘la vera dittatura è il culto della tradizione’ come ha scritto Jonathan Bazzi, in riferimento alla cultura in genere -, ma come dicevo prima poco importa. L’importante è che la poesia si continui a fare, se dovessimo scrivere per la gloria o per il successo di sicuro avremmo tutti abbandonato la penna già da un pezzo.
Quello che significa fare poesia per un uomo, ma è chiaro che ogni voce risente del proprio vissuto. Forse, ecco, diciamo che la poesia femminile viene spesso definita ‘intimista’ a prescindere dal contenuto. O un hobby.»
Per tornare al libro, quali sono i temi della raccolta? Cosa troveremo in questa? Cosa ci sorprenderà leggendola?
«Ognuno, si diceva tempo fa con la cara amica e poeta Felicia Buonomo, ha propria ossessione tematica. La mia ha a che fare con la distanza o meglio con l’elasticità delle distanze. Ed è spesso una poesia che dialoga con qualcuno, con un tu pensato o immaginato, con delle controvoci. Mi piace pensare alla poesia come a un pianoforte, a dei salti di ottave, agli alti e ai bassi. Non amo spiegare, scrivo per sequenza di immagini a volte, tolgo il superfluo, la parola che non suona.»
Dove sta andando la tua poesia? Progetti futuri, oltre le traduzioni?
«Ho in mente una preghiera laica e la parola umanità, ma i progetti poi spesso non funzionano, non riesco a scrivere su commissione, neanche quando la committente sono io.
A febbraio uscirà il mio primo romanzo e sto lavorando al secondo, a momenti alterni, in mezzo come per tutte le persone che scrivono e contemporaneamente devono pensare alla propria sussistenza economica e alla propria famiglia, c’è la vita reale. Che poi è fonte di scrittura, no?»
In conclusione, hai una massima che ti guida? Una massima che vuoi condividere con noi?
«Direi proprio di no, le massime tendono a diventare minime appena si pronunciano. Però ho un verso di un autore nigeriano letto pochi giorni fa, Logan February, che mi rimbomba nella testa: ‘Ho chiesto di vivere ancora, non per sempre’.»