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Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus

24/04/2023 08:00

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Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus

L'editoriale - A cura di Letizia Cuzzola

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  L'editoriale

 

Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus

 

di Letizia Cuzzola

 


   Il 25 aprile di ogni anno si celebra la liberazione dell'Italia dal nazifascismo, la fine dell'occupazione nazista e la definitiva caduta del regime fascista. C’è solo un piccolo dettaglio che sfugge: il 25 aprile del 1945, mentre i tedeschi e i soldati della Repubblica di Salò battevano in ritirata e la fine della guerra per il nostro Paese era questione di giorni, c’era ancora qualche italiano che continuava a lottare. Ma giusto qualcuno eh…
   Riporto dal sito dell’ANPI: «È stato calcolato che i Caduti nella Resistenza italiana (in combattimento o eliminati dopo essere finiti nelle mani dei nazifascisti), siano stati complessivamente circa 44700; altri 21200 rimasero mutilati o invalidi. Tra partigiani e soldati italiani caddero combattendo almeno 40mila uomini (10260 furono i militari della sola Divisione Acqui, Caduti a Cefalonia e Corfù). Altri 40mila IMI (Internati Militari Italiani), morirono nei Lager nazisti». E sono questi ultimi i numeri che ci interessano e che raccontano un’altra storia.

 

   Facciamo un passo indietro. L’8 settembre 1943 si rese noto che a Cassibile Badoglio aveva firmato cinque giorni prima l’Armistizio con gli Alleati, Armistizio che dai tedeschi viene letto come una dichiarazione di guerra al Terzo Reich. Il 9 settembre, mentre Badoglio, il re e tutto l’ambaradan stanno traslocando a Brindisi, impossibilitati quindi a rispondere alle richieste di aiuto e coordinamento dell’Esercito, ci sono circa un milione di soldati italiani sparsi per l’Europa e a cui non è stata data alcuna istruzione sul rimpatrio né aggiornamento su quanto stava realmente
accadendo. Il risultato? Mentre le truppe italiane erano ormai allo sbando e abbandonate a sé stesse, quelle tedesche erano già pronte da mesi a mettere in atto il cosiddetto Piano Achse, esecutivo già la sera dell’8 settembre, assumendo il controllo di parte del territorio italiano e delle zone occupate dalle forze italiane, in Francia e nei Balcani, disarmando le unità ivi stanziate e attaccando quelle che avrebbero opposto resistenza. Ecco come 650mila soldati, in pochissime ore, furono catturati e deportati in Germania, diventando Italienische Militärinternierte – IMI. Gli Internati Militari Italiani resteranno tali ben oltre quel 25 aprile 1945, dovendo attendere l’estate per poter in patria su treni merci. D’altronde, come tali erano stati trattati per più di due anni.
   C’è un altro piccolerrimo dettaglio: la denominazione Internati Militari Italiani non venne data perché suonava meglio, ma per sfuggire alla Convenzione di Ginevra del 1929, sottraendoli allo status di prigionieri di guerra e alle tutele della Croce Rossa Internazionale. Traditori per il Reich, traditori per il Duce avendo rifiutato fedeltà alla Repubblica di Salò, unica possibilità per rientrare in patria e scampare alla prigionia. Insomma, la posizione degli IMI è quella di nemici su qualunque fronte. Col senno di poi, diremmo carne da macello su cui giocare trattative inutili.

 

   Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. Non è facile ritrovare notizie sugli IMI, non lo è almeno fin quando non si usano le parole corrette, non ci si addentra nel sottobosco storico in cui la memoria di questi uomini è stata celata. Gli accenni alla loro vicenda sono sporadici anche nei libri di scuola, come una macchia che è più facile non vedere che tentare di ripulire. Non rientrano fra gli eroi della Resistenza, non rientrano fra i Partigiani, non rientrano nel novero di quegli italiani eroici che con due semplici lettere, con un NO grande quanto un’intera vita, hanno lottato per i loro ideali e la nostra libertà. Quel 25 aprile non è roba loro. Eppure…

 

   La scelta. Al momento della cattura, quel 9 settembre 1943, i militari italiani di stanza all’estero vennero messi di fronte a una scelta ben precisa: passare dalla parte tedesca e combattere nella Wehrmacht o con le SS, e successivamente con la RSI, oppure mantenere quel giuramento di fedeltà fatto al Re e allo Stato legittimo. Scelsero quest’ultimo, lasciandosi alle spalle una vita normale e in molti anche il futuro.

 

   Parole nuove. A questo punto dobbiamo introdurre altre parole nuove, senza le quali la ricerca porta a un vicolo cieco, a un buco nero da cui sembra che la storia di questi italiani sia stata inghiottita. Una volta chiara la scelta fatta, ormai prigionieri, dopo un periodo di permanenza in campi provvisori (Auffanglager), il viaggio verso la Germania, la Polonia e l’Austria può iniziare. Gli IMI, fino al settembre del 1944 furono internati, in base al loro grado militare, in campi (Stalag per sottoufficiali e truppa, Oflag per ufficiali) da cui dipendevano centinaia di piccoli campi secondari (Zweiglager) - volutamente tralascio le condizioni di prigionia, sperando che qualcuno dei lettori voglia approfondire l’argomento – per poi cambiare classificazione il 25 settembre 1944 quando gli IMI vengono ‘riciclati’ negli Arbeitskommando (campi di lavoro) quali lavoratori coatti nell’industria pesante e bellica soprattutto. Questa la ciliegina sulla torta del destino degli IMI: a questo punto si cessa di definirli prigionieri ufficialmente e ufficiosamente, pur modificando solo formalmente il loro status, seguendo le direttive uscite fuori dall’incontro del 20 luglio fra quei due scellerati da cui tutto aveva avuto inizio.

 

   La guerra è finita. Gli americani terminano di liberare, diciamo aprire i cancelli che mi suona meglio, i prigionieri in Germania nella seconda metà di aprile del 1945. 50mila IMI sono già morti per le condizioni di detenzione e 600mila restano in attesa di capire cosa succede. Quel “You are free” è più una sorta di permesso di libera circolazione che una libertà vera e propria perché per le operazioni di rimpatrio bisognerà attendere luglio a ché partano le prime tradotte e settembre perché i primi IMI raggiungano le proprie famiglie. Su treni merci, carri bestiame o a piedi. Si badi bene, i primi IMI, perché ancora all’inizio del 1946 e anche dopo qualcuno faceva ritorno a casa dai campi più lontani e in cui la liberazione era stata solo un passaggio di proprietà allo stato dei fatti.

 

   Rancore. C’è una punta di astio e un pizzico di rancore nel mio racconto? Sì, pure qualcosina in più. Dopo ottant’anni e quattro generazioni, quella macchia a cui accennavo prima, visibile finora solo ai parenti degli IMI inizia a essere notata anche dallo Stato che ha proposto dei risarcimenti e delle medaglie al valore. Riconoscimenti simbolici e tardivi, premi di consolazione se vogliamo. Ecco, onestamente, se fossi al posto di mio nonno che è stato uno di quegli Internati Militari Italiani, continuerei a dire di NO perché non si può festeggiare una memoria selettiva, non si possono fare figli e figliastri. Solo la Memoria può essere il vero risarcimento, solo la memoria può davvero liberare questi 650mila IMI che al loro ritorno in patria hanno continuato a subire un processo di incomprensione e oblio.