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Speciale Marchisio: AEDO DEL PAROSSISMO - Una nota su 'Chi vive se ne pente' di Paolo Pera

30/10/2020 00:01

Admin

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Speciale Marchisio: AEDO DEL PAROSSISMO - Una nota su 'Chi vive se ne pente' di Paolo Pera

Speciale Marchisio: AEDO DEL PAROSSISMO - Una nota su 'Chi vive se ne pente - Lo speciale - Le recensioni in LIBRIrtà -

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Speciale Marchisio:
AEDO DEL PAROSSISMO

 

 

 

 

Chi vive se ne pente

La nota di lettura di Paolo Pera

 

 

 

 

Puntoacapo

 

 

 

Lo speciale
Le recensioni in LIBRIrtà


A cura di Paolo Pera

 

   Il lucido occhio omicida della Medusa ci introduce nei violenti luoghi in cui Mario Marchisio fa agire i suoi vari personaggi nella raccolta di novelle Chi vive se ne pente (puntoacapo Editrice, 2020). Un’armonica composizione di testi che sono un crescendo – sempre allegro (e con macabro, afferma il prefatore) – d’esasperazione: qualcosa che ci violenta, che non vorremmo leggere, che sappiamo che ci travierà, e che leggiamo comunque… quasi come se fosse un nostro dovere, quello d’accorgerci che l’uomo è immancabilmente il lupo dei suoi simili e altre sgradevoli verità, destinate a non essere mai comprese del tutto.

 

   In un’intervista da me curata, riguardante sempre questo libro, Marchisio non si è trattenuto dall’affermare che il suo intento è stato quello di mostrare la parte sommersa e putrescente dell’iceberg umano (creando dunque un nuovo uso metaforico di tale immenso cubetto di ghiaccio, dopo Freud). Se la parte emersa, ecumenica, è piena di belle gioie e intenzioni soavi e (apparentemente) generose, l’altra – chilometrica! – sarà composta d’ogni malizia e mal pensiero che l’uomo cova nella propria solitudine ontologica per il suo simile (o eguale?); scopriamo allora che le intenzioni contano solamente se malevole, poiché – qualora vogliano farsi intendere virtuose – tendono a nascondere la ricerca del guadagno personale o dell’inganno e della vendetta.

 

   Marchisio è da sempre un letterato per palati forti, per personalità robuste: nella sua poesia si respira un’infinita fame di progresso (inteso quale miglioramento ideale) di quanto esiste già, non d’invenzioni che non occorrono; la sua narrativa al tempo stesso è un trionfo di stile, un tesoro di cogitazioni impareggiabili (sempre motivatamente aspre) e di formule linguistiche allettanti. Potremmo dire che un pessimista schopenhaueriano ci sguazzerebbe, sbattendo solo contro gli scogli (e gli scoli) della sua fede.

 

   Il fascino per il mito si amalgama coralmente con le reminiscenze (mai troppo lontane) della cristianità, consegnandoci alcune storie degne d’un’antologia, come per esempio Ascanio, in cui il protagonista si troverà di fronte a una maternità vivente dove chi prende il posto della Madonna allatta un cucciolo di Minotauro, che è il proprio figlio.

 

   Il racconto Spire è ancora un’affermazione d’amore per la mitologia come catalizzatrice della paura. Qui passiamo attraverso tre fasi: la realtà, il sogno (messo talmente a fuoco da essere quasi inintelligibile, almeno per me), e infine il mito… in esso tutto è cristallino pur travolgendo persino i personaggi che lo abitano. Come direbbe Marchisio: la realtà è un’allucinazione (almeno per gli animi bruti che non credono e disprezzano Dio), dunque perché non mettere in scena la sensazione più spontanea di costoro, l’estraneità alla geometria cosmica? Da questa verranno giudicati e puniti, come accade al povero cagnolone, che – avendo sgarrato di qualche secondo il suo rientro all’ovile, di già che può passeggiare da solo… – viene freddamente restituito al mare dei tritoni. Isabella, nello stesso racconto, vedendosi ridotta a creatura acquatica senza alcun passaggio logico intermedio (è questa la tortura maggiore, non capire i dati del proprio problema!) non ha da spiegarsi nulla: così è, pure se non vi pare…

 

   Anche nella novella Rubino sorge, con la dovuta esasperazione, tale teoria sull’allucinazione d’esserci. Qui infatti il protagonista, nuotando con un amico nella pubblica piscina, vede una pinna assai minacciosa venirgli inaspettatamente incontro.

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Il racconto termina con la dipartita di uno dei due, dovuta all’assolvimento d’una scommessa. Questa e altre narrazioni di Marchisio si presentano come il susseguirsi di frammenti discontinui che suscitano sconcerto, e interrogativi senza risposta: «Insomma, com’è morto?» e poi: «Come si muore?» non a caso v’è sempre quest’interruzione profonda e incolmabile tra la vita (che si ricorda) e la tragicità della conclusione… Essa è l’acre interruzione dalla totalità, quasi come se il flusso riconosciuto (una sorta di drittissima linea) ricevesse un colpo di spugna; o, per rimanere nel mito, come se le Parche tagliassero il filamento della nostra vita spegnendo – nell’Aldiquà – ogni presenza a noi stessi.

 

   In Arcadio abbiamo la raffigurazione del pensiero d’un morto che, dietro le sue palpebre, s’immagina di dialogare – pure animatamente, e sopraffacendolo – col nostro amato romano pontefice… Chiedendogli – anzi, consigliandogli – un’assoluzione, poiché: «Non capita tutti i giorni di poter assolvere proprio me…», ma il buon Francesco – ancora tra i viventi – non lo può ascoltare, altrimenti di certo l’avrebbe accontentato… o, semmai, battuto con un nunchaku. Ecco allora ciò che abita la mente ormai spenta di chi scompare: la maledizione per chi resta!

   Finirei con la farsa che Marchisio ci promette fin dal sottotitolo del libro: il dialoghetto Matrioška. Qui v’è forse il culmine della disperazione, per citare un autore molto noto. Immortalando lo scientismo anti-umanista d’oggi, l’autore rappresenta come sia possibile nascere, riprodursi e morire lo stesso giorno: ovvero mettendo al mondo il figlio d’una neonata squarciandola a metà… Da questo libro, insomma, ne usciremo terrificati! Ma chi ha goduto fin da piccolo dei migliori film horror, altresì, si sentirà nella casa dell’essere: il miglior linguaggio per quei dannati che agognano all’Eterno senza meritarlo.

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