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È "Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia" (Terrarossa Edizioni) di Michele Ruol il #ConsigL

12/01/2025 00:30

Admin

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È "Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia" (Terrarossa Edizioni) di Michele Ruol il #ConsigLibro di Stagione Inverno 2025

#ConsigLibro di Stagione Inverno 2025 - Gianfranco Cefali

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Michele Ruol

 

Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia

 

TerraRossa

 

Le recensioni in LIBRIrtà

#ConsigLibro Inverno 2025


A cura di Gianfranco Cefalì

 

    Un’immagine ossimoro è la prima cosa che mi viene in mente: un urlo che ha la connotazione del dolore, straziante, ma è privo di parola, di suoni, in quella figura percepiamo qualcosa di distorto. Siamo davanti a un essere umano e ne vediamo lo sguardo perso, i lineamenti tirati e prossimi alla distruzione, eppure non riusciamo a captare nessuna voce, nemmeno un lamento, abbiamo solo l’immagine che ci guarda con gli occhi spaventati e dilatati, e c’è un passaggio brusco, a una seconda immagine, quello stesso volto, quegli occhi, quelle labbra, adesso sono perfettamente sigillati, chiusi ermeticamente, come se fosse un proposito naturale quello di rimanere ciechi e muti, sordi davanti non solo a sé stessi, ma anche di fronte al mondo stesso. E cambia di nuovo l’immagine, ora ci sono due esseri umani, sono uno di fronte all’altra, i loro sguardi non si toccano mai, almeno quando sono molto vicini, succede, succede alle volte che uno cerchi gli occhi dell’altro, anche solo per arrabbiarsi e provare a sviare il dolore, oppure succede che i pensieri viaggino da soli, come su strade desolate costeggiate da filari di alberi immensi e tutto bruci intorno a loro, forse anche loro bruciano, in quella che potremmo definire un’autocombustione spontanea, ma nessuno dei due è ancora pronto a spegnere l’incendio, anzi, alle volte, sono proprio loro ad alimentarlo, pur non accorgendosi di nulla, o proprio perché si accorgono di tutto. E rimane, per molto tempo, una vita che vira verso un continuo rallentamento, almeno esteriore, in cui tutto accade come se si stesse abitando un pianeta con gravità raddoppiata e ogni azione, ogni pensiero abbia un peso completamente diverso, ogni gesto pesi troppo per le due figure, finché non rimane un primo piano in cui sono congelate in un instante lunghissimo, e tutto quello che rimane sullo sfondo vortica e percuote tutto, trascinando la vita che non si riesce a percepire, a capire. E questa immagine comincia a scurirsi come se fosse in atto un ammutinamento del colore e l’opacità di un olio corposo e denso, nero, nero come la notte stesse inghiottendo tutto e di quel vortice di immagini che lo sfondo gridava non rimane niente e poco alla volta anche le due figure urlanti e ferme vengono inghiottite.

 

    Michele Ruol ci accompagna nella vita di due naufraghi, dispersi in mare, al largo, in una giornata senza sole, con grossi nuvoloni che si confondono con lo specchio d’acqua grigio, con i due esseri umani che provano a restare a galla facendo i morti sul pelo dell’acqua, e con il pulviscolo di un incendio che gravita su di loro come neve, per poi cadere senza le meraviglie dei giochi geometrici, neve che non si scioglierà mai, non si dissolverà mai, si accumulerà sulla pelle, nei capelli, nei corpi di quei due natanti immobili, fino a formare una patina inscindibile.

 

    L’autore ci porta attraverso la sua narrazione nella paura più grande che possa colpire una madre e un padre: la morte dei figli. Lo fa senza cadere nello stereotipo o entrare nella stanza dei figli, ma soprattutto lo fa senza retorica, mettendo in fila una serie di oggetti, un inventario, che racchiude e cerca di spiegare la loro vita. Ci troveremo davanti a un lungo cammino, un lungo viaggio senza nessuna colonna sonora a fare da sfondo o più semplicemente per alleggerire quel viaggio. Ci troveremo in un lungo tunnel, cieco, in cui le varie ramificazioni ci riporteranno sempre al centro della via con tanta strada ancora da percorrere, in cui solo le luci bianchissime del soffitto si affacceranno sul parabrezza. 

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    La scrittura di Ruol è come il mare calmissimo in un giorno d’estate (sì, ritorna la metafora marina), l’acqua, come la scrittura, luccica, riflette, percorre la superficie solcandola con grande maestria, per poi rimanere incantati alla fine del percorso, quando ci propone di stupefarci per le piccole onde che si infrangono sulla battigia. Anche la struttura è ottima, il racconto si snoda attraverso capitoli brevi, che non ci restituiscono singoli fermo immagini o semplici foto, sembra di essere davanti a piccoli filmati, ognuno con l’oggetto e il soggetto ben chiari, sempre a fuoco, l’unica differenza che troveremo sarà il tempo, alle volte sembrerà di trovarci in quei vecchi vhs tutti sgranati e oscillanti, ma perfettamente conservati, altre volte sarà una scena lucidissima e luminosa che ci troveremo davanti, quasi fosse ripresa da uno smartphone di ultima generazione. 

 

    È un romanzo nichilista? Pessimista? Vittimista? No. Cerca di essere una strada per descrivere con molta cura qualcosa che idealmente sarebbe impossibile da spiegare con le parole, con la voce. Ruol lo fa benissimo utilizzando la scrittura. Un romanzo intenso, sincero, che si preoccupa di non irretire il lettore con le lacrime facili, non cade nei tranelli di facilitare l’assorbimento e la paura del dolore, che non cade nella tragedia fine a sé stessa, che racconta in realtà molto di più della perdita dei figli, soffermandosi in un affresco della coppia particolarmente sincero e interessante. Libro e autore che di sicuro meritano di essere attenzionati. Penso e spero che questo libro possa diventare un classico contemporaneo.


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