Raymond Carver
Di cosa parliamo quando parliamo d'amore
Le recensioni di Sabrina Di Martino per Aleph, Scuola di scrittura e Letto, riletto, recensito!
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?
A leggere Raymond Carver, parliamo di tutto e di niente, di vuoti e di pieni. Di oggetti, alla rinfusa, accatastati, dimenticati, sconosciuti, quotidiani. Di cose, “buone e di pessimo gusto”, come diceva il Gozzano de “L’amica di Nonna Speranza”: oltre settant’anni dopo, nella sua famosa raccolta di racconti – dal titolo, appunto, “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” – sembra quasi che Carver gli faccia eco, scegliendo di scrivere di bicchieri di gin che si rovesciano, di macchinette del caffè, di giardini colmi dei mobili di un trasloco o di torte di compleanno mai ritirate in pasticceria.
Come nelle produzioni crepuscolari, il minimalismo carveriano sembra quindi calarsi profondamente nelle cose, dando voce a gesti consueti, a forme comuni, a eventi insignificanti, insinuandosi tra le crepe del domestico, tra gli interstizi dell’ordinario, facendo della vita minuta, piccolissima e dimessa, vera e propria letteratura.
Nell’opera di Carver si susseguono diciassette racconti, brevi flash, frammentarie “inquadrature” di reale, come istantanee slegate e casuali, tenute però insieme da un fitto reticolo, le cui geometrie letterarie rimangono per lo più sommerse e segrete, a condannare il lettore a un limbo di sospensione mai colmata.
Si potrebbe dire, in fondo, che in queste storie non succeda effettivamente nulla, qualora prendessimo come metro di paragone quella letteratura di facile consumo, con i suoi eventi roboanti e chiassosi, le crisi e i rovesciamenti, i mirabolanti colpi di scena.
In Carver c’è, invece, una sapiente tessitura di non detti, di silenzi, di frasi stringate e parole ridotte all’osso, di elisioni, di assenze, di accenni, di attesa, un amalgama perfetta che crea aspettative, che genera tensioni e inquietudini, sollecitando l’immaginazione di chi legge a fare un salto oltre la “quarta parete”, a colmare quegli spazi volutamente lasciati bianchi. Resta da capire, però, quanto questo minimalismo, nei decenni divenuto un vero e proprio mito, sia effettivamente carveriano e quanto, invece, sia ereditato dalla revisione di Gordon Lish, l’editore che, negli anni ’80, agì brutalmente sui racconti del testo originale.
Questa forma, così aperta e irrisolta, sembra comunque la più opportuna per parlare d’amore, nello intrico incomprensibile e nel suo indecifrabile caos.
È un amore prosaico, quello di Carver, che percorre e pervade le tensioni di coppie in preda ai fumi dell’alcool, gli scontri di famiglie allo sbando, di innamorati infedeli e di amanti, insinuandosi tra cucine e bagni, tra bar e stanze d’albergo, luoghi chiusi, sinistri, spesso inospitali, espressioni di un’Arcadia rovesciata e smitizzata; un amore, dunque, meno nobile e idilliaco, scarnificato dagli eccessi e dalle sovrastrutture patinate, ammantato, piuttosto, di grigiore, di stanchezza, di noia e banalità quotidiana.
Sabrina Di Martino
Catanese (giarrese) di nascita, bolognese di adozione. Dopo aver conseguito la laurea in Lettere Moderne, studia Italianistica nell’antico ateneo emiliano.
Da sempre appassionata di lettura e scrittura, ha collaborato con diversi blog, legati principalmente al mondo del cinema e delle serie televisive.
Ha frequentato la scuola Aleph, a cura della Villaggio Maori Edizioni di Catania, con l’intento di conoscere il più possibile tutte le sfaccettature della scrittura, alimentando un rapporto già profondo e viscerale. Scrivere è infatti un imperativo categorico e imprescindibile, un’ambizione, un sogno.