A cura di Paolo Pera
La nuova silloge di Raffaele Floris, Senza margini d’azzurro (puntoacapo Editrice, 2019), conferma nello scrivente una qualità già percepita nell’autore – e che ne desta la più viva simpatia! –: egli sa vivacizzare il grigiore della tristezza data da quanto non v’è più, la mancanza che sempre affligge l’animo d’un poeta. Questa capacità non tramuta certo il colore in cui stiamo durante la lettura dell’opera in un affresco maggiormente vistoso, ma bensì fa amare l’assenza per quella che è: un silenzio colmo di mistica quotidianità. La sublimazione della norma non sempre sorge con dignità oggigiorno, ma nell’artigianato del verso essa è immancabilmente d’obbligo.
Senza è la parola chiave di questa silloge, al di qua delle proprie finestre il cielo non si consegna nella sua colorazione ottimale: «la finestra ha un cielo / angusto contro i vetri, senza margini / d’azzurro» … Il libro è difatti una meta-stanza dell’animo del Nostro, che – chiuso nell’attesa della rinascita – galleggia sul pelago d’un’esistenza che di sé non dice mai troppo. Floris è «pensosamente solenne», scrive Mauro Ferrari nella postfazione, Floris (potremmo dire) assume le forme della più celebre opera di Rodin: Il pensatore, che non a caso doveva inizialmente intitolarsi Il poeta, seduto in cima a La porta dell’inferno; sotto di sé infatti, sotto il suo silenzio, s’intravede un dolore ormai ammansito. Pur essendo morto il dolore è vivo il ricordo dello stesso, ed è questo ad annebbiare ancora (colorando appunto di grigio) il cammino dell’autore.
Gli haiku segnano quest’arretramento ulteriore del dire: se il poeta si concedeva in frammenti di sé assai concisi e misurati, in ben due tornate limita il proprio linguaggio nel «minimalismo pseudo-giapponese» oggi tanto in voga, consegnandoci alcune riflessioni (invero ricavate da progetti di natura social-mediatica) azzeccatissime e convincenti.
Riprende infine un vasto cammino nella mancanza d’azzurro, il confronto col simbolismo dei fiori permea le pagine d’una primavera tarpata però dal «novembre» del suo animo; la commozione nel ricordo degli estinti, nelle pareti disabitate che parlano tra loro, sfuma il grigiore preparandoci al bianco paradisiaco dell’ultimo componimento: L’attesa e la promessa.
In una nuova stanza del suo pensiero – quasi estranea a tutto il resto – ci troviamo al cospetto del magico momento in cui Giuseppe seppe dell’attesa di sua moglie: l’incredulità del Santo gli fa chiedere di poter tastare la pancia della sposa… «Le sfiorasti il grembo. / Hai confidato in lei, nella speranza / di quel germoglio: tu l’hai custodita / come l’attesa, come la promessa / del Dio che si rivela accanto a te.»; il poeta rinasce dunque – al pari di Cristo, e alla fine dell’opera – nella consapevolezza di chi sa d’avere nel proprio figlio il miglior Dio…