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Il sonno della ragione genera mostri

21/11/2023 17:19

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Il sonno della ragione genera mostri

L'editoriale di Letizia Cuzzola

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L'editoriale

 

Il sonno della ragione genera mostri

 

di Letizia Cuzzola


    Quando Francisco Goya, nel 1797, titolò una sua opera “El sueño de la razón produce monstruos” intendeva mandare un messaggio contro le volgarità dell’epoca, proponendo in alternativa opere come “I Capricci” a testimoniare la ricerca costante della verità. Goya, oggi, probabilmente inorridirebbe nel lèggere questo che per lui era soltanto un titolo e nel rendersi conto che, trascorsi più di due secoli, la società non ha fatto altro che nutrire quei mostri. Apparentemente non vi è alcuna scollatura fra un secolo e l’altro: quel che era buio allora è buio pesto adesso, si è solo alzata l’asticella della volgarità, della cattiveria mistificata da libertà di espressione e comportamento come se ognuno di noi fosse padrone esclusivo del mondo, gli Altri comparse da utilizzare al momento opportuno.
 

    Siamo circondati dall’orrido, dalla bruttezza dello stereotipo e dell’omologazione. Alla ricerca costante dell’originalità postiamo foto, ricordi e pensieri che sembrano usciti da una fabbrica di figurine. Ci meravigliamo della violenza che diventa spettacolo e motivo di discussione solo perché
pubblicità gratuita. Pubblicità. Spot. Audience. Pubblico pagante e non. Scandalo. Indignazione. Violenza verbale per condannare la violenza fisica. A un femminicidio si risponde chiedendo la morte dell’aguzzino. La legge del taglione non è mai caduta in prescrizione.
 

    Mai come oggi è più attiva e presente che mai, sulla bacheca del magistrato e della maestrina che corregge il sacerdote che conta le sue pecorelle. Il problema di fondo non è la violenza fisica, l'evento specifico in cui si manifesta o le modalità efferate. Il cuore della questione è il tarlo che spinge qualcuno a volersi appropriare della vita di un altro, volerla gestire o fare propria fino a toglierla quando si rivela uno strumento che non risponde più ai comandi. E non bisogna andare lontano o leggere la cronaca nera. Ogni giorno ognuno di noi lotta contro qualcuno che è dentro la nostra vita, che pretende di prendere decisioni al nostro posto, di farci rispondere alle sue esigenze, che vede la nostra vita come uno schizzo da trasformare in un suo disegno. Visibilità. Cerchiamo specchi in cui rifletterci, a cui rubare una luce che non abbiamo mai saputo accendere. Sipario. Se non lo chiudi tu, lo chiudo io perché mi hai rubato la scena.
 

    E non importa più chi sono io perché tu che sai dire solo io sei più importante. Perché tu che sai dire solo io non sai quanto tempo ci ho messo per imparare a dire io mentre l’astina della T del tuo Tu mi appendeva al tronco di un albero. Sediamoci, respiriamo e facciamo silenzio. Guardiamoci, osserviamoci e tacciamo. Ché puoi urlarlo a gran voce che hai cresciuto un gentiluomo ma oggi quel gentiluomo gira con la  fidanzata nel bagagliaio e domani porterà l’auto a lavare perché l’hai cresciuto pulito e ordinato.
 

    Gridalo più forte che è colpa della scuola in cui l’hai parcheggiato e a cui hai chiesto di trattarlo come un principe perché tuo figlio è tuo, mica degli altri o come gli altri. Forza, su, fammi vedere le corde vocali mentre incolpi la società tutta e fai post prendendotela pure con suo padre ché mica è femmina e quindi perfetto come te. Pure tu papà, su, non restare indietro. Prenditela con gli amici che tu non volevi frequentasse ma che deve perché altrimenti come si fa a vivere senza le regole che non gli hai dato perché anche tu sei suo amico.
 

    Mi si vede a sufficienza mentre scrivo dal mio piedistallo? Tutti ormai ne abbiamo uno a casa, un po’ più basso, un po’ più alto. Abbiamo studiato tutti giurisprudenza, economia e sociologia con un pizzico di pedagogia fra una passata di straccio e una seduta dalla nail artist o dallo psicoterapeuta.

 

    Ah no, dallo psicoterapeuta ci sono andata solo io per imparare a dire io mentre soffocavo con l’astina della T del tuo Tu. E mi sento una cogliona, e ve lo dico fuori dai denti, mentre leggo il fruttivendolo che riscrive il Codice di Hammurabi e se la prende col giudice che scrive che non ci si può fare giustizia da soli. Sì, mi sento una cogliona perché non riesco a starvi dietro, a gestire lavoro e casa senza che nessuno mi veda, senza scattare foto minuto per minuto e commentare, e giudicare, e condannare. Scrivo. Sui muri, sulla carta e se non trovo niente allora mi scrivo sui polsi, sulle braccia e sulle gambe. Non scrivo sugli altri, non è mia la loro pelle.
 

    Dovremmo imparare a stare ognuno al suo posto, a vedere quella bolla di sapone in cui ognuno ha diritto a vivere senza che nessuno arrivi armato di spillo in mano per entrare o, peggio, farci del male. Dovremmo imparare che non c’è io senza tu. Ma tu nel dubbio statti nel tuo.