Pierangelo Cardìa
Primus Grammaticus
Aneddoti apocrifi dall'Islandese - XII secolo
Aletti editori
L'angolo della poesia
A cura di Paolo Pera
Come, come dire del geniale e tardo esordio di Pierangelo Cardìa? Esso, il Primus Grammaticus. Aneddoti apocrifi dall’islandese - XII secolo (Aletti Editore, 2018), non può che sbalordire le menti capaci di ricevere un simile sperimentalismo (tutto incentrato sul linguaggio), menti vogliose poi di recuperarne il “traducibile”. Difatti proprio di linguaggio parliamo: Cardìa (presumibilmente il Primo Grammatico stesso) narra di un innovatore fuggito dal carattere pseudo-borghese della sua isola (l’Islanda, stando al suo espediente) per istruirsi nel Continente, imparando il latino (altro espediente di certo) e infine importare – una volta di ritorno – una sua novella e originale Grammatica. Gli isolani saranno mai capaci di assumerla, però? Le conoscenze antropologiche che ognuno di noi ha non ci lasciano ben sperare, ma stiamo in ascolto del Grammatico…
Parrebbe ineludibile che un tale “ricostruttore della Lingua” incontri nel corso nel suo agire gli ostacoli e le scomuniche degli “assolutisti della Parola”: quei parrucconi, si suol dire, mai autocoscienti dell’odore di mummia da essi emanato. Dice Cardìa, consegnandoci quello che ipotizziamo essere il nome del suo Grammatico, Salman: «[…] usa parole che chi non ha credo spera siano blasfeme», costui poi «[…] tiene in sé il suo io diviso intanto che lo rivela al Mondo, perché il Mondo / sappia che ogni Luna ha due facce».
Certo, sconvolgere sconvolge il Grammatico, ma ci sa pure attrarre col suo gioco s-combinatorio. Il fascino per il linguaggio è, in fondo, cosa dei grandi uomini di lettere… Ma l’intento di questo Grammatico quale sarà mai? Egli vuole forse liberarci dall’oppressione d’un qualche maligno Sistema a noi quasi del tutto ignoto, e che la mente tarpa fin nel linguaggio e/o attraverso di esso? Per un simile intento serve però un profeta vero e carismatico, penseremmo, oppure un popolo aperto al nuovo. Cardìa ci suggerisce però che questo non sia nell’«Islanda» del XII secolo né mai… Sfortuna volle.
Come Gian Giacomo Della Porta – che è qui il prefatore dell’opera – suggerisce, Cardìa «[…] si disfa di un superfluo lirismo e ci ricorda che la libertà è un baluardo di fratellanza che sconfigge la tirannia, rivelata o mascherata che sia», difatti lo stesso nostro autore lo proclama: «Lo scopo: / fondare scrittura comune ed evolvere Storia e futuro». Il Grammatico lascia dunque la sua «terra dei ghiacci e del fuoco» con lo scopo di auto-comprendersi, già in vista del proprio ritorno: «volevo sapere me stesso dall’occhio straniero» ma pure «Volevo sudare la fama del braccio che tratta il linguaggio». Durante questo errare il Grammatico ha le sue rivelazioni fondamentali: «Per dare la forma / del Tempo / decisi / che meta è ovunque / io sia»; «[…] bassa scultura / che descrive / uomini e cose / talmente perfetta / che il suo artefice poteva / esser nato / da essa»; «Bisognerebbe / essere due almeno / per spiegare / solitudine»; «In vece del tuono / mi risolsi ad adorare / il ginepro»: quest’ultima lascia trasparire un bisogno d’immanenza nella riflessione dell’autore. E ancora: «spostare il segno del suono nel verbo, diceva barbarie e follia»; «Destino del dotto che cura / se stesso, ignora / si epura e letteralmente / non sceglie: / la pietra / deflora»: qui l’autore parrebbe chiudersi nell’epoché pur di non recar danno alle cose; il «mondo [parrebbe] piatto con il vuoto in fondo»; «La notte è un velo [di Maya?]»; «Sei vite sono una vita e spazio; / la settima, ipotetica, / è forma di pensiero». Il Grammatico pare anche consapevole della progressiva morte del linguaggio, cui si sta infatti opponendo cercando una qualche soluzione: «[…] nessun suono ha segnato le menti. / Il nuovo giorno mi informa, / parola perduta: tu sei dimenticata». L’atomizzazione dei linguaggi sembrerebbe quasi – in senso decisamente postmoderno – la giusta soluzione per permettere la fuga dei più dallo stordimento generale, per far rientrare in sé ogni singolo, permettendogli così di auto-comprendersi (ossia essere in sé) prima ancora di essere in una società; preme su questa concezione la losca minaccia dei dominatori “invisibili” che certo sapranno sfruttare tale atomizzazione per alienare ulteriormente i loro sottomessi, potenziando la presa su questi…
Ormai savio sulla realtà delle cose il Grammatico riaffronta le acque per tornare all’origine del suo essere. Nella sua terra però avviene un incontro insperato che lo condurrà presto all’amore: «Incontro mi venne, Gwnn / la donna regina del Borgo e del Clan. / Mi disse che già mi sapeva / a me / e alla stanca memoria del viaggio e degli anni. / Mi disse ci siam conosciuti / e sì io risposi in istòria perduta, del viaggio, degli anni / e della memoria», insomma i due si erano da sempre percepiti come esistenti sapendo dunque che il tempo li avrebbe uniti, intrecciati (o, semplicemente, fatti incontrare).
Insomma, «come ruscello che ha pesce, / ignaro che l’acqua percorre; / come il Destino che ha l’uomo, / ma non può disporre / le male sue azioni e le altrui», l’incontro era prescritto sul papiro dell’essente che ancora deve essere.
Nel Grammatico innamorato i pensieri abbandonano la missione linguistico-emancipatrice (sorta per amore degli isolani) e solo alla sua donna si votano; l’amore pare però inizialmente triste e non destinato a coronarsi d’esistenza: «I due che saranno amanti pare che si / ignorino / come si sfiorano i non amanti. / E fanno invisibili circonferenze. / Vanno controcorrente e tergiversando / fingono / esagerate indifferenze», ma soprattutto: «Coincidenze inesatte / della stessa donna: quella / che amo, quella che non mi ama». Dalla sua lei il Grammatico vuol essere visto, visto nel profondo o almeno sotto la pelle: «Delle rose / strapparne vorrei una / che mi strappi essa la pelle / perché veda / come dentro sono / rosso / come lei». Essa nel Grammatico muta, essendo egli la sua estate; quest’indifferenza l’addolora ma non scade in nessun putrefatto pensiero: «[…] non t’odio perché / scopro / che non t’amo, / non per questo, / t’odio», logico è che un innamorato così a lungo lasciato al suo struggimento perderà prima o poi ogni sentimento, finendo così colto anch’esso dall’indifferenza (la peggiore delle condanne per le non-innamorate mai avute) … Uscito da questa delusione, che pareva quasi prevista, l’errabondo protagonista del nostro “poema in frammenti” torna a ragionar stoicamente sulle cose, contento già dei suoi adorati Sostenitori: «[…] l’unico modo / per moltiplicare / è dividere le cose», insomma egli trova la sua “dolce metà” in sé stesso dividendosi, frammentando – come di consueto… – il suo io: misera ma abbordabile felicità.
Fallito il tentativo amoroso il Grammatico riprende dunque a lottare contro il Potere, quasi per riempire il vuoto non colmato da Gwnn. Questi dominatori guerrafondai, che guardando il mare (sapendolo pure abitato sull’altra riva) dicono: «Guerra», si vedono belli e pretendono «effigi di sé». Essi gli scatenano infatti contro i sapienti ufficiali (o canonici) che tentano così di distruggerlo per il suo proponimento di «predicare la libertà di linguaggio e l’indipendenza della facoltà articolatoria dei singoli parlanti», egli è comunque protetto dai suoi Sostenitori «Ma, come il cielo cieco che quando rovescia la furia sul suolo e sui mari non riesce a distinguere il male dal bene, così la marmaglia mia amica colpiva anche me, sul cranio indifeso e non solo la truppa a me avversa», sembra dunque che i Sostenitori non siano all’altezza di prendere le parti del Grammatico, e che le loro giustificazioni ne affossino ancor di più la credibilità di fronte ai “canonici” … Egli è comunque il profeta delle masse oppresse, ma esse – assai probabilmente confuse dai loro stessi dominatori, pur partecipando più o meno consapevolmente al messaggio del Grammatico – se ne creano un’opinione ambigua e sospettosa, forse d’ingannatore, quasi esso fosse un qualche critico del Capitale da salotto televisivo (per i quali si può talvolta ipotizzare la malafede, se non una collusione coi Padroni stessi). Per qualche tempo ancora il nostro eroe combatte «le battaglie dei lapidati alla gogna del meridio». L’uomo è però incretinito è pensa soltanto (e ipocritamente) alle azioni dell’altro, e solo queste giudica: «Siamo tutti presi / dal gusto della morte / altrui / ché poi il male / ce lo culliamo e ce lo coccoliamo / come la nostra creatura». Il Grammatico è visibilmente affaticato dalla sua missione, dal poco supporto ottenuto, come pure dalla poca partecipazione richiamata (di norma, in tempi di individualismo neoliberale): «L’uomo del Golgota invidia / Sisifo». Proprio questi individualisti, che piantano in solitudine i profeti perché ne muoiano, contorti da sé stessi vengono lasciati liberi di credersi dèi perdendo così attracco con quella terra che deve invece essere liberata: «L’aria rarefatta delle montagne sacre / li instupidisce, ed essi / pensano di essere Dei». Da uno pseudo-Giuda il Grammatico è poi tradito, la sua sconfitta è dunque segnata: non verrà crocifisso, no, verrà però (come già accennavo) abbandonato al silenzio del suo pensiero, e lì lasciato a smarrirsi e a deprimersi: «I giorni del buio / non sapevo il mio nome». In questa solitudine il Grammatico sente i vivi e sente i morti, nessuno pare esistere, egli stesso non crede la vita per sé: gli resta soltanto la pietà per ciò che si sgretola e per chi soffre, non si è però liberato della trista e opprimente volontà poiché per i nemici (i Potenti) mantiene un furente rancore; con queste righe si accommiata: «Convivo / coi vivi e i defunti. / Per gli uni soffro pena inesausta / coi morti vendetta / fallita o incompleta».