A cura di Alessandro Corso
Uscito nel 2023 per Les Flaneurs edizioni, nella collana Montparnasse, “Le Pentite” (pp. 230, € 17,00) di Francesca G. Marone, già attiva blogger, da anni, con il sito blog “Letteralmentelive.wordpress.com”, è un romanzo che si è fatto notare molto per la particolarità della storia e le capacità narrative dell’autrice. Una storia che fin dalle prime pagine fa breccia nel cuore del lettore, spesso facendo letteralmente male, nel modo di esporre i fatti, anzi nel modo in cui i fatti si espongono da soli, girando e rigirando il coltello su quelle che sono un po’ anche le nostre ferite, e si fa fatica a drenare il sangue di quelle stesse ferite. Interessante lo stile evocativo dell’autrice, questo sbrogliare la matassa di una storia intricata, e buttarci in faccia la verità più spietata, per svelare le ombre più oscure dei protagonisti.
Protagonista non uno singolare, di fatto, ma plurale, così mostrando la sensibilità e la capacità di rivelare “l’altro”, forma di maieutica letteraria e umana della scrittrice partenopea. Non poteva non essere così per Francesca Marone, sociologa e counselor di professione, già autrice di diversi racconti e del romanzo “Poche rose, pochi baci”, pubblicato dall’editore Castelvecchi.
Narrazione fine e minuziosa quella della Marone, che a tratti fa emergere echi di altri tempi, come quando descrive, con affetto delicato, la natura e i tratti malinconici dei personaggi femminili, a partire da una delle protagonisti principali, dispiegandone il passato: “Federica era bella ma non ancora consapevole di ciò che il suo corpo poteva esprimere, le sopracciglia scure si univano al centro con una piccola ruga che, al di là della spensieratezza dei suoi vent’anni, gettava un’ombra di malinconia sul suo sguardo brillante di pece”. Immagini in bianco e nero dipanano l’intreccio narrativo, come pellicola cinematografica di cinema d’autore, la bellezza dei corpi colti nella più nuda e disarmante verità, come papiri d’epidermide, dov’è più facile sfogliare un messaggio d’impudicizia o di vergogna, gelosia nascosta o dichiarata, con uno sguardo mesto o d’orrore, una smorfia aperta o un sorriso di sfida.
C’è la rilettura, altre volte, dei codici e delle leggi della vita, i dogmi e le convenzioni, come nell’incipit del secondo capitolo del romanzo, la reinvenzione tutta personale del Padre nostro di Federica, la studiosa di Storia dell’Arte, protagonista del romanzo: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Che sia lievitato, che sia un cuore colmo d’amore, fatto di pazienza cieca nell’attesa della luce. Metti un freno al pensare e consentici di occuparci degli altri non come fosse un dovere, e di preparare quell’impasto quotidiano non senza un alito vitale. Ogni cosa è soffocata dalla preoccupazione del domani. Mentre ignari proseguiamo, noi sonnambuli, sotto ipnosi, sperando di urtare con un gomito la realtà e destarci. Non indurci nella tentazione di voltare le spalle alla vita, liberaci dal Male.” Il male, tuttavia, sembra quasi per trionfare sul bene e su tutto, se non fosse che i personaggi di questa storia si fanno il più possibile forti, subiscono, cadono nel vortice delle loro reciproche passioni, e alla fine reagiscono. Chiaro che credere la quiete dopo la tempesta la sola chiave di lettura delle relazioni umane è pura congettura, di mezzo c’è quello che, nel bene o nel male, noi tutti chiamiamo vita. Personaggi passionali, dunque, indipendenti o schiavi di loro stessi per condizione, più per vivere che per sopravvivere alla banalità stessa dell’esistenza, il ritrovarsi nel corso temporale di un universo troppo ristretto, o troppo grande, anche per loro. Qui nasce, fin dalle prime pagine, la dicotomia caratteriale dei protagonisti, nel controverso frapporsi di lassi temporali, salti diacronici di una
storia tutta da rivelare. Vediamo allora Giuseppe, lo studente di medicina dal carattere instabile ma fedele, avvolto nell’ombra delle sue notti insonni, infestate dai ricordi di un opaco, a tratti luminoso, passato e dalle poche fioche luci del
presente: “Contava, fino a mille, milleduecento, e anche oltre. Contava, Giuseppe, nelle sue notti insonni, rivedendo dinanzi agli occhi semichiusi le pagine di Anatomia e i seni di Lei, seni dritti che sfidavano la forza di gravità.” Dall’altra parte lei, la sua giovane amante, allegra e al contempo sfuggente, perché “Lei era troppe cose tutte insieme, era tanta, e non si poteva lasciarla andare né prenderla completamente.”
S’intrecciano poi le storie di passione di Federica e della sua amica Maria, donne perdute e ritrovatesi, divise dalla figura di un uomo violento, denominato non a caso il Lupo. E ancora più indietro quella della ex prostituta Elisa, che era “specie di capo fra le Pentite, non le faceva schifo nulla, e nemmeno aveva paura delle malattie, ma da quei maiali ammalati di sesso da sola non ci voleva più andare” e della giovane Albina Fedeli Scocchera di Vigolino, affetta da “delirio melangolico cronico profondo” e per questa ragione rinchiusa nella Casa dei matti dell’Ospedale degli Incurabili, singolare storia ambientata nella metà del settecento. Molte le immagini vivide, a tratti poetiche, i giorni e le notti attraversati da lampi d’angoscia, dove si legge forte la partecipazione dell’autrice, la penna empaticamente coinvolta: “Prima vide l’acqua, un muro solido di acqua che si alzava sulla sua testa e come la superficie di un lago si chiudeva e gli faceva intravedere attraverso un velo opaco il cielo in lontananza. Poi si sentì nell’acqua con il corpo pesante e i vestiti gonfi che gli impedivano i movimenti di risalita verso l’alto. Le mani tastavano il ghiaccio in cerca di una frattura.”
Ancora, quando narrando della madre anziana della protagonista Federica, ne descrive il decadimento, l’asettico vivere: “Non era stanchezza fisica. Si era impadronita di lei la non vita, quella di molti anziani che vanno giorno dopo giorno per inerzia. Non c’era sorpresa nei suoi occhi, non c’era desiderio. Talvolta aveva provato a cucinarle un piatto di cui era ghiotta, niente da fare. Quella forchetta indugiava a ogni boccone, facendosi largo nel piatto, spostando sui bordi il cibo così da farlo sembrare meno di quello che fosse.”
Come in una sorta di matrioska esistenziale, vediamo la capacità della scrittrice di leggere i viventi, ma soprattutto gli ultimi, i prossimi alla fine, coloro che non si sono spenti del tutto. Qui si riverberano le impressioni e le paure del quotidiano dei vari personaggi, come specchi vicendevoli, piccoli squarci sui loro affanni, sugli appannati profili del vivere, nel chiaroscuro incerto o nella troppa luce di un interno domestico, come in un acquerello di Giorgio Morandi.
C’è ancora un messaggio di speranza, un invito a resistere sempre, nonostante le avversità e la ferocia insita in tutte le occasioni dell’esistere, quel che vale sopra le impressioni soggettive del critico, è la capacità personale dell’autrice di attrarre l’attenzione, il focus sapientemente puntato sui personaggi, quasi sempre calato nella realtà di una Napoli a tinte forti. Storie, intrecci di passione, vite legate fra loro, come ci preannuncia la copertina a cura di Giuseppe Inciardi, due figure con le fattezze di mandragora, intrecciate da fasce spiraliformi come in un disegno di Maurits Cornelis Escher. E d’altronde, nessuna figura vegetale più umanizzata della mandragora, di rowlinghiana memoria, poteva rimandare ad alcuni temi cardine del romanzo: l’attrazione per la stregoneria dell’amante di Giuseppe, l’aura di stranezza dei personaggi più arcani, come la figura ectoplasmatica, quasi sospesa a mezz’aria, di Albina, che finirà per coinvolgere nel baratro di diafane parvenze anche la sua compagna di sventura Elisa, e dunque, la necessità di disobbedienza di parte delle figure femminili qui raccontate. Qui le donne sono così attaccate a certe radici, per destino o volontà altrui, quanto desiderose di sfuggire alle gabbie della società, se non al giogo della propria stessa mente. E quando l’amore non salva, e il tempo perduto a raccattare i cocci di un presente non nostro, a restare a guardare i sogni degli altri, sembra dirci la Marone attraverso la voce dei protagonisti, quando le anime degli uomini si smagliano dalla vita, ecco che sembra riaffiorare la speranza, il sottinteso catartico già accennato nella lettera che apre il romanzo. Qui la figura di Giuseppe, il medico con le sue allucinazioni tutte particolari, è in tal senso esemplare: “Certo, l’amore gli aveva voltato le spalle e Lei e le sue mani d’incantesimo non l’avrebbero più accarezzato. Ma cos’era l’amore che poteva donargli una sola donna in confronto alla gratitudine immensa di tutte le anime che poteva salvare? Anche la depressione si sarebbe arresa di fronte alle promesse salvifiche delle cure mediche che lui era in grado di offrire.”
Spesso la narrazione sfocia poi in una dimensione onirica, guidata in automatico dall’arcaicità di quei luoghi affatto facili da sondare, come l’Ospedale degli Incurabili, che si portano addosso l’impronta di immani sofferenze passate, di vite decimate da ogni sorta di antiche epidemie. Direbbe il cinico nulla di nuovo sotto il sole nell’ambito dello stile o della fiction propriamente detta, se non pensassimo subito al modo in cui l’autrice induce a riflettere su queste vite sbiadite, a queste
solitudini disperse, che prima di rivedere la luce faticano in modo sovrumano, nel loro affaccendarsi di carriere ed esperienze, stentando a riconoscersi, ad appartenersi. Torna, dunque, il retro-messaggio, il filo conduttore della storia, la duplice identità del Pharmakon, annunciata nel sottotitolo del libro: “Sarò per te veleno e cura.”
La speranza fa parte dei piani, ma più forte è la volontà di curare, di curarsi, al di là di ciò che avrà deciso il destino. Una ragione in più per fare i conti con il passato, quel passato che rincorre noi tutti, spesso per ricordarci da dove veniamo, ma anche per fortificarci. Il tema centrale resta fino alla fine l’amore, nel bene e nel male, questo amore cercato, sognato, confuso, ferito, perduto e in altre forme ritrovato. Un amore sempre sofferto, tanto che Francesca Marone non può fare a
meno di parlare per i protagonisti della trama, mutuando anche la voce dalla terza alla prima persona plurale, dall’Essi al Noi, come se tutto fosse già scritto e riscritto sulla pelle e nei corpi, percepito e come rifiutato dall’inconscio, ma solo all’ultimo del tutto rivelato, anche dalla sua penna: “Gli stivali bassi mettevano leggermente in risalto la corposità delle sue gambe, erano gambe importanti, non nei canoni classici della bellezza femminile, ma a Federica – e al Lupo, naturalmente – erano sempre piaciute. Ora, con gli anni, erano cambiate, ma conservavano quell’antica forza e compensavano le gambe troppo magre di Federica. Quanto ci avevamo messo per capire che potevano essere una la parte mancante dell’altra? Erano state ingannate da un’idea trasfigurata di amore.”
Il tempo è giudice di tutto, o forse no, al lettore il beneficio del dubbio, il libero arbitrio, l’effimero diritto all’impostura tipico della finzione, o meglio, della verità letteraria, il gioco quasi insolente e rivelatore della volpe, attraverso il ricordo della protagonista Federica, quasi medium tra l’autrice e il lettore, a suggerirci di non perdere mai la tenerezza: “Quando era bambina, e andava in campagna dai nonni, le piaceva correre nell’aia grande. Lì, i coloni le avevano raccontato che andava a nascondersi la volpe, aveva una tana con piccole trappole per i predatori, uomini e altri animali. Usciva solo al tramonto e si faceva rossa come una fiamma, come le mattonelle dell’aia grande, come il tramonto sulle siepi. Rossa, come le guance di Federica, la bambina emozionata di poter scorgere l’animaletto, anche solo per un attimo.”
L'autrice (Fonte Letteratitudine)
Francesca G. Marone. Sociologa, counselor e mediatrice familiare sistemica, laureata in scienze politiche prima, in Comunicazione pubblica sociale e politica poi- con una tesi sui Mutamenti dei modelli familiari e il materno nella scrittura, vive e lavora a Napoli. Ha pubblicato racconti e poesie in antologie per varie case editrici, fra cui Perrone editore, Nottetempo edizioni e Centoautori. Collabora dal 2008 al blog Letteratitudine di Massimo Maugeri. Dalla rielaborazione del manoscritto “Lui così estraneo” -segnalato al Premio Calvino 27 ed. con la menzione “per un lacerante scandaglio di un’interiorità femminile”- è nato il suo primo romanzo “Poche rose, tanti baci”.
Il libro
Titolo: Le Pentite
Edizioni: Les Flaneurs
Pagg.: 230
Prezzo: € 17,00
Voto/Valutazione: Suggestivo