L'editoriale
La resilienza ha rotto il cazzo
di Letizia Cuzzola
Lo scorso anno mi presi la briga di catalogare le espressioni che avrei voluto la pandemia si portasse via (visto? Sono romantica anch’io: so fare le rime) in un editoriale che vuole essere un po’ l’antesignano di quello che state leggendo. Il risultato? Un anno di clausura non solo ha aumentato gli orrori lessicali ma ha favorito una diffusione a macchia d’olio delle pessime abitudini comunicative.
Abbiamo ancora gente che si vergogna della minchiata che sta per dire e commenta con un “chiedo per un amico”: sì, grazie, sei altruista ma fatti i cazzi tuoi che tanto l’abbiamo capito che lo vuoi sapere per te ma ti è rimasto un briciolo di pudore e t’affrunti.
Ancor di più abbiamo il salutistaterrapiattista della situazione che urla contro i vaccini: attranquillati, non ti viene la trombosi con l’Astrazeneca, evidentemente hai già una parte del cervello in cui pure il tuo stesso sangue si rifiuta di arrivare.
Alzi la mano chi non ha almeno due o tre contatti in rubrica che mandano ogni santa mattina il buongiorno con due gatti tre cani e quattro tulipani che urlano “Buongiornissimo” e chi ha salvato nella galleria un’immagine con la scritta “Buongiornissimo un cazzo” con cui vorrebbe rispondere in broadcast. Anche a voi giunge il Santo del giorno che nella maggior parte dei casi è un Cristo che non ricorda neanche il Papa di averlo santificato o l’aforisma del salumiere anonimo con scritte cinque parole a caso e un “resilienza”?
Ecco, a me la parola “resilienza” fa venire un’orticaria che neanche le erbacce quelle appiccicose e con gli aculei. Qui molti, soprattutto quelli che se la sono tatuata in 3d e con gli origami su un intero braccio facendo il giro dell’olecrano, avranno da ridire. La resilienza ha scassato la minchia, ce l’ha fatta a julienne. Resilienza è una parola bruttissima, un concetto osceno che tutto ha a che vedere tranne che con la capacità di vivere. Nel 90% (il 10% sono ingegneri) dei casi chi utilizza questa parolina è un qualcuno che reputa di essere una vittima della vita, uno sfigato che però si è autoconvinto di avercela fatta, di aver trovato un senso alla sua piatta esistenza e di essere diventato un supereroe solo perché si può dire “resiliente”: ti si è spezzata un’unghia e le estetiste sono in lockdown? Fai un selfie con l’unghia spezzata e sorridi, ecco: sei resiliente! Ti è morto il gatto e posti un intero book su Instagram con la didascalia “Vai a insegnare ai gattangeli a fare a brandelli interi divani”? Sei resiliente perché riesci ad affrontare con pacato dolore la morte del tuo gatto e con serenità il lutto perché credi che da qualche parte ci sarà un mondo rose e fiori. Non è resilienza: è follia. I social hanno reso lapalissiana la smania di apparire, esasperare sentimenti, emozioni (spesso ricreate artificialmente per l’occasione). Forse, la resilienza, è la capacità di vedere la realtà con le lenti verdi di Kant.
Dalla Treccani: «Resiliènza, s. f. [der. Di resiliente]. 1. Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità. 2. Nella tecnologia dei filati e dei tessuti, l’attitudine di questi a riprendere, dopo una deformazione, l’aspetto originale. 3. In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc. 4. In ecologia, la velocità con cui una comunità biotica è in grado di ripristinare la sua stabilità se sottoposta a perturbazioni». Insomma, la resilienza è la capacità sì di resistere agli urti della vita ma implica rigidità. Io resiliente, resto fermo, mi adatto alla situazione pur di andare avanti.
Ma voi l’avete mai fatta una frittata senza rompere le uova? Io no, io le uova le rompo pure durante il tragitto verso casa appena comprate. Ora si alzerà il sapientone al primo banco e mi dirà che sinonimo di resilienza è resistenza. E io inizio a mirare meglio gli aeroplanini di carta su cui prima ho alitato, che adesso è un’aggravante. È necessario resistere? È necessario subire passivamente? Ora punta il dito il genio del male e dice che storicamente la Resistenza, per una come me, significa altro. Esattamente: la Resistenza come forma attiva di contrasto e lotta mi va benissimo e non può essere assimilata alla resilienza, in quel caso, fossimo stati resilienti e non partigiani, avremmo salutato le truppe nazifasciste sventolando allegramente un würstel.
Proviamo a ravanare ancora: se la resilienza vuole essere la capacità di prendere il buono da una situazione si chiama ottimismo e probabilmente anche apertura mentale. Io capisco che negli ultimi anni questa parolina ha permesso la nascita e la proliferazione di soggetti che ne hanno fatto un business: dai coach motivatori (grazie, sono contenta che a te sia andata bene ma io voglio sbagliare per conto mio) ai personal trainer che spronano intendendola come ‘forza’. Vi svelo un segreto: un carattere forte o ce l’hai già o ti attacchi agli aeroplanini di carta che lanciavo prima. Nella vita bisogna essere elastici, non resistenti: bisogna cambiare forma, idea, ribaltare tavoli e situazioni, non alzare muri. Stare sulla difensiva non vi farà mai segnare un goal.
Adattarvi alle situazioni senza tentare prima di capirle e aggiustare il tiro vi servirà solo a essere infelici. Di fronte all’ingiustizia, al dolore non c’è niente a cui doversi ancorare, c’è solo da ricordarsi che si è polvere e la polvere si muove, si sposta, copre e scopre se accetta che il vento scelga per lei. Ecco, sì, apprezzate il vento e se proprio dovete abbandonarvi a qualcosa, che sia un vento che mai vi faccia adagiare