PORTANDO LA BELLEZZA
Riflessioni sul Carme di Andrea Laiolo
Le riflessioni
Gli evergreen
A cura di Paolo Pera
La plaquette "La Bellezza. Carme nautico" (Edizioni Aurora Boreale, Prato 2017) di Andrea Laiolo è certamente un piccolo gioiello poetico, ma pure un dignitosissimo trattatello di filosofia estetica; oltreché una guida all’uso dell’arte della poesia. Sorge dunque la domanda: come si usa la poesia? A ciò risponderemo in queste righe.
Il nauta-poeta (o poeta-nauta?), per riprendere un’espressione del postfatore, s’inserisce – assai gagliardamente – in un viaggio che lo porta fin dall’inizio alla deriva, alla morte, e all’immortalità! Tale consapevolezza pervade ogni navigante: qui il naufragio è quasi sempre in agguato, e solo intorno a poche coste avvengono dei salvataggi così gratuiti (e sedicentemente doverosi). Ricordiamo un verso ungarettiano: «il naufragio concedimi Signore1»; in questo v’è già molto dell’affresco che Laiolo propone: il desiderio è quello di perdersi entro un luogo (ovvero l’arte) per ri-scoprire quel Dio dal quale, secondo la nostra opera, discente la bellezza ricercata.
Gl’insolenti demoni pregressi, ormai sorbiti dall’interiorità, sono – potremmo dire – la prima fatica del nauta-poeta, che ne troverà svariate; dovendosi ogni qualvolta confrontare con queste, affermerà ripetutamente la propria dottrina contro le serpi del pensiero, poste ad annebbiare la vocazione alla chiarezza2 del Cristo che il poeta è: ognuna di loro è il tentatore del deserto.
Ma il navigatore, forte d’una fede ciecamente sana, risponde con lo stoicismo del Nazareno: se il pane distoglie (a mo’ di piacere deviante) dalla missione, il poeta si nutrirà solo di ricerca: del dovere consegnatogli dalla Natura a cui presto parlerà. Tale dovere è uno solo: non dismettere mai la bellezza da sé per nessuna necessità minore.
Laiolo, nella foto accanto, ha fin troppo presente quanto quest’ultima occorra all’uomo, iniziando dal poeta stesso: se la poesia d’oggi non ha più alcun valore, infatti, è proprio perché nega di dover preferire a tutto la bellezza che dà forma all’opera arte, e che la eternizza fin dal suo nascimento – il postfatore, Tiburio Sangallo, sottolinea appunto quest’ultima cosa: la bellezza costruisce pure là dove manca il pensiero, l’eccedenza di pensiero – strano ma vero! – invece l’annichilisce, ne ingolfa la ricettività, e ne ha fatto smarrire la sapientia (quasi innata) che portava a rintracciarla senza troppa fatica; trovarla oggi, essendone disabituati, è una vera e propria caccia al tesoro… uno scontro con sé stessi, e contro le proprie minime facoltà! Ecco, di un carattere innato della bellezza potremmo parlare a lungo, ma limitiamoci a dire questo: ben sapendo che nulla è innato in noi potremo se non altro educare la nostra ricettività fiaccata, il gusto, e – di conseguenza – l’intuito, al punto tale da riconoscere a fiuto ciò che emana luce, ciò che è buono. Questo è il punto: la poesia si può usare così, e forse in nessun altro modo; quale strumento per insegnare la necessità contro ogni eccesso, per comunicare quel giusto che disvela e che rivela il vero. In tale prospettiva non ci deve frenare la consapevolezza che la parola sia fondamentalmente un soffio di voce, poiché anch’esso trattiene senso: l’ha proprio in quanto nel nome che la parola è venne posto un significato perpetuamente riconfermato dal succedersi degli uomini.
Come potremo – e qui anticipo un argomento messo a tenzone da Laiolo – ridurre a nulla un nome solo perché non deriva (ad avviso di molti) dall’Essere trascendente? Farlo è anzitutto uno sfregio ai propri padri, non certo a quel Dio insultato tanto volentieri: chi crede di fare ciò, particolarmente per insultare gli uomini (e dunque sé stesso), è addirittura più credente di chi fa poggiare ogni ragionamento estetico su assolutismi più o meno motivati. Un’altra cosa, credo, è ben espressa da Sangallo: la bellezza, in fondo, si giustifica da sé; e questo è vero, almeno nel suo carattere sensibile… Là dove finiscono le congetture sul perché del bello rimane almeno il senso del bello, e per spiegare quest’ultima cosa temo che occorra essere dei neurologi o qualcosa di simile. Come ci insegna Leibniz, pur nella doverosa esposizione logica dei nostri argomenti occorre accontentarsi di quanto ci è dato da conoscere davvero, non andando dunque oltre… difatti, cercare d’ipotizzare un mondo migliore di questo è meno possibile che comprendere quello che abitiamo. Il nostro novello Odisseo, proseguendo la sua deriva, si troverà bloccato dalle sirene e poi dal Barbassore (come l’appella Sangallo, il postfatore): un filosofo nichilista e relativista, di quel tipo che io chiamo nichilismo negativo (cioè sregolato). Pure qui il nauta-poeta non ha da temere, come dice il Kavafis di Itaca: «Non incontrerai Lestrigoni e Ciclopi, / e neppure il feroce Poseidone, / se non li porti dentro, il cuore, / se non è il cuore a alzarteli davanti». Di fatto Laiolo li incontra, per vincerli! Passando poi per la terra dei teatranti della poesia, gli abitatori di quell’insulto che è il Poetry slam (che rappresenta l’immenso degrado che la democrazia può fare all’arte: premiando l’abilità retorica del dicente anziché le proprietà dell’oggetto detto!).
Torno all’incontro del poeta con il Barbassore relativista, qui il postfatore non parrebbe essergli da meno nel momento in cui appone la sua interpretazione dell’origine del bello contro ogni decadenza relativistica. Tale posizione pare decisamente escludente per ogni relativista (del mio pari) che crede comunque nella necessità del bello per la vita. Le bestie che sia il poeta che Sangallo dannano sono certamente quei miseri che – affatto guidati da una ragione colta e posata – finiscono per imbruttire le proprie fattezze pensando d’impreziosirsi, basti vedere quei poveri fanciulli che – magari partendo da un sembiante già poco accettabile – si sfregiano, ignari d’aggravare la loro posizione (pure con tutte le inimmaginabili conseguenze psichiche): costoro, a cui dovrebbe andare la pietà di noi tutti, non accetterebbero mai d’essere istruiti al riconoscimento del bello, poiché già educati scompostamente da frasi quali: «Pensa con la tua testa!», cosa possibile solo quando la testa funziona… Altrimenti, con una bella lavanda cerebrale, si rende assolutamente necessario l’intervento d’una guida al bello. Paiono queste le conseguenze più infime della ribellione contro ogni autorità delle auctoritates, pure se tale caduta non dovrebbe minarne l’autorevolezza (almeno là dove ci fosse stabilità di pensiero). Se il nichilista negativo del poemetto nega la bellezza nega, in ultima analisi, sé: poiché l’uomo è votato alla perfezione, alla sapienza, dunque al bello! Perdere Dio, quasi fosse una zavorra morale, non dovrebbe far perdere pure le cognizioni di tale ovvietà; costoro si votano forse all’inesistenza terrestre? Ma è questo essere nichilisti? Io non lo credo, essendolo: il nichilista si vota per lo più alla potenza di sé, che diventa collettiva tramite l’esempio; l’abbandono al nonsenso d’esserci che cosa è mai? Questo non lo voglio chiamare nichilismo, se non in termini dostoevskiani!
Ma uccidere sé stessi per uccidere Dio3 ha senso?
È proprio la vocazione al bello a renderci simili a Dio, se non a renderci dèi.
In un’idea più laica, e forse psicologista, Dio non è null’altro che l’espressione più alta che il nostro pensiero può sfiorare, e ci si arriva tramite l’esercizio! Così Kirillov avrebbe ragione: uccidersi è uccidere Dio, e farlo toglie immancabilmente ogni paura del dopo. Invece in una dimensione trascendentalista del Dio, a mio modo di vedere un po’ più complicata da affrontare, quanto è bello è in comunione col Creatore giacché parte discesa di Lui; sorge spontanea la domanda: cos’è dunque il brutto? Mancanza di Dio? Ma tutto è Dio! Sarà allora paragonabile al male agostiniano: il male è assenza di bene (di Dio)? O è il vuoto che il bene lascia, colmato poi dall’opera d’un antagonista del Creatore? Con Bayle si potrebbe pure pensare che il male sia anch’esso parte della Creazione, che – in una versione più congruente col poemetto – il brutto sia anch’esso necessario al disegno divino. Tale infinito domandamento non ci conduce a una risposta dignitosa, è per ciò che il pensiero teologico infine si posiziona e prende partito; altresì io terrei a sviluppare una riflessione laica della bellezza: lo ripeto, per me questa dimensione appartiene a quell’uomo che nella storia ha saputo raffinarne lo sviluppo; se poi quest’ultimo venne fatto in nome d’un’entità superiore è un altro discorso, anzi un mero contorno alla questione presa in esame.
Parlare ancora di bellezza è necessario poiché inscrive l’uomo in un percorso che – oltre alla gradevolezza del luogo in cui far abitare il pensiero – ha da fare con secoli e secoli di ricerca positiva del senso, altresì ancorarsi alla bruttezza degli ultimi decenni condanna alla limitatezza temporale, e a radici troppo giovani. Dio dunque è solo l’ispirazione che muove l’agire, senza di Lui l’animo novecentesco4 naufraga senza neppure essere partito per nessun dove. Il nauta-poeta, Laiolo, altresì non affoga nel mare su cui riesce pure a camminare, poiché diventa un mare contro un altro mare: e al fine d’ogni cosa incontra quell’ampio e bianco altare da cui ogni senso deriva, giunge dunque là dove proviene quanto in lui vive, la bellezza. Davanti a tale scoperta s’inginocchia per pregare, in una magnificazione, il suo Dio: con questa grazia nuova, con la consapevolezza che la bellezza ha un luogo terrestre (la Natura) da cui il poeta discende, Laiolo può finalmente scomparire nell’orizzonte, essendo arrivato in cima alla conoscenza desiderata. Oltre la quale si muore, venendo custoditi entro questa cosa eterna che è l’unica a non perire, la bellezza.
Note
1 Giuseppe Ungaretti, Preghiera.
2 La chiarezza possibile di cui parla Mario Marchisio.
3 Come Kirillov, personaggio de I demoni di Fëdor Dostoevskij.
4 Colui che è perduto nella finitezza, indebolendosi in modo terminale.