Undicesimo appuntamento con la partnership di Radio Off. Per le Note di lettura su “Nero Crescente”, di Patrizia Baglione, Ed. RPlibri, recensisce Ornella Mallo
A cura di Ornella Mallo
Scriveva Anna Achmatova in “Luna allo Zenit”: “Strepita ciò che non ha parola, / o affila nel buio la pietra sotterranea, / o s’apre un varco nel fumo”. E cosa c’è di più ineffabile dell’amore? Inesprimibile, ma imperioso nel dettare il bisogno di parlarne, e di fare chiarezza intorno al suo mistero. Ne “Il libro delle seduzioni” di M.Chebel leggiamo: “Ora che vi ho detto tutto sull’amore, non crediate che io ne sappia più di voi: il ragazzino, il bimbo appena nato ne sanno quanto me. L’unica differenza è che lui, che non ha anni e ancor meno esperienza, crede ancora a ciò che lo tormenta; mentre noi, che siamo carichi di anni e di esperienza, cerchiamo di affidarci a essi per rendere meno dolorose le nostre illusioni. Eppure con tutto ciò, sappiamo forse amare meglio di lui?” Nella raccolta poetica “Nero crescente” la giovane poetessa Patrizia Baglione ripercorre la propria esperienza amorosa dall’anelito ad essa, che poi ne è la scaturigine, fino alla sua consunzione: paragona la fine dell’amore alla morte di una stella che trasmuta in un buco nero: “Verrà la disperazione / e poi / il buco nero dell’oblio”: un “nero crescente”, appunto, che avviluppa le luci del rapporto fino ad inghiottirle del tutto. Scrive l’Autrice: “ È un polipo la tristezza / dalle spire lunghe / ti guida senza che sia tu a volerlo / quasi cadi giù // resti a contemplare il nero / ma è poco, non basta / è ancora troppo buio.” “Allontanandosi da un dolore, pare necessario rifare gli stessi passi che ci hanno condotto ad esso.”, scriveva Fitzgerald in “Tenera è la notte”: “Pezzi di vetro scricchiolano / sotto i piedi / feriscono ad ogni passo / sembra di vivere / un inferno sopra la terra / pomeriggi che tardano ad arrivare / senza dare spazio / al giorno a venire.”, scrive la Poetessa. E così Patrizia cerca di distaccarsi dalla sofferenza che ha comportato la fine del rapporto amoroso, camminando a ritroso nel tempo, fino ad intercettare gli albori dello stesso, che vengono lucidamente individuati in un proprio bisogno personale: “ho sete d’amore, anche se / io bevo da sempre.”, asserisce in un verso. In un’altra poesia leggiamo: “Quello con le ali bianche / di traverso mi guarda / consegno tronchi per il fuoco // da accendere / in questo gelo che già crepita all’alba // è così che voglio essere / non più ghiaccio che trema / ma idea di essere sciolta.” Il verbo “crepitare” ricorre in un’altra poesia: “Sono rosse e carnose / le labbra recise / sotto i piedi dell’ombra / del tuo fragile corpo // da qui, le vedo e le sento / chiacchierare tra loro / un crepitio assordante / che non smette un secondo.” Crepita il fuoco dell’amore, che se da un lato, ha il potere di sciogliere quel gelo interiore che fa soffrire, in quanto intirizzisce la nostra anima costringendola all’immobilismo, dall’altro lato può ustionare e farsi frastuono: silenzia “il canto dell’usignolo / fatto di fiori bellissimi / come quelli che nascono in primavera”, diafana immagine del richiamo imperioso del sentimento nella sua fase iniziale, un tutt’uno con l’idea e con il bisogno che si ha di esso, per cui è “impossibile anche non fare l’amore.” Leggendo i versi di Patrizia Baglione, si assiste a un suo farsi avanti per poi ripiegarsi su sé stessa, a un suo protendersi, spinta da un desiderio di congiungimento non solo carnale: “Sono qui / prendi il mio firmamento: /tieni, è tuo / ti regalo le mie radici / perché tu possa annaffiarle / e far crescere l’albero / della tua esistenza.” Questa tensione viene però tarpata dal respingimento dell’Altro: “Non so che farmene del tuo corpo / che ho sempre cercato / di trovare la tua anima // ma questo mio desiderio / non ha trovato scoglio // non c’è stata per me / una deriva / un approdo dove fermarmi.” È l’eterno scontro tra l’idea dell’amore e la sua concreta realizzazione, che trova il suo limite nell’oggettiva difficoltà di penetrare i confini entro cui è barricato l’Altro, di cui trapela dai versi la crudeltà e l’incapacità di ascolto: “Il mio cuore ha pianto forte / l’altro giorno / ma tu / nemmeno l’hai ascoltato. […] Era rosso – caldo / pulsante. / Nonostante tutto quel dolore / era vivo d’amore per te.” Sempre Fitzgerald, in “Tenera è la notte” scriveva che “l’indifferenza, incoraggiata o lasciata diventar cronica, diviene un vuoto”. E la Poetessa scrive: “Ma tu lo sai che / il vuoto / quando è / veramente vuoto / assomiglia al pieno?” Cresce il disincanto, che le fa vedere il proprio cuore come “una spina dura e costante / capace di solcare solo un terreno.”; “gli uccelli hanno smesso di cantare / la loro canzone / fatta di gioia e perpetua poesia”; “le parole sono spine / che possono ferire. […] Ti penetrano la carne e restano / ferme lì dentro di te / che sei già fragile / ma scegli comunque / di non sanguinare.” Non resta che constatare, amaramente, la persistenza della condizione di solitudine, e la mancata realizzazione della diade tanto agognata: “Siamo due piccole solitudini / di pulviscoli incandescenti // l’acqua / non ci chiederà / tempi di spegnimento // la pioggia farà lo stesso.” La fine viene raccontata passo dopo passo, nella sua estrema gradualità, con il distacco proprio del chirurgo: Baglione maledice il giorno dell’incontro, perché riconosce che il tu cui si rivolge l’ha resa “muta davanti alla vita / e sorda / e a tratti cieca”, mentre avrebbe dovuto farla “risuonare / con il resto del mondo”. I raffreddamenti dilagano inesorabili, e vengono descritti ricorrendo all’immagine dell’acqua, che si contrappone al fuoco, ma che non per questo ha meno forza: fuoriesce inarrestabile come una lava gelata: “Non un’ombra si è appoggiata vicino / nemmeno l’acqua ha dato / segno di stanchezza. // Fluiva potente / come coloro che se ne fregano / se fuori piove oppure c’è il sole / fluiva potente / perché era viva.” È dunque un’acqua catartica, che conduce la Poetessa alla salvazione di sé: “Non potevo di certo fermarmi e morire / così ho corso / lontano / per le vie del fiume, fredde / e distratte / come il tempo sopra la mia testa.” D’altra parte, “Non nel parto / ma nella vita stessa / si nasce.” Permane, nonostante tutto il dolore patito, una visione positiva della vita, che va salvaguardata e protetta dai rapporti tossici che possono gravemente comprometterne il corso. Sulla condizione umana scrive: “Siamo […] Metamorfosi continue / alla ricerca di disperata bellezza lenta / ma radicata. Siamo anche coraggio! / Desiderio che resti / costante la gioia / anziché, qualche sprazzo di luce / di tanto in tanto, qui e là.” Lascia intuire che l’Uomo è artefice del proprio destino, e capace di vincere le ombre che vorrebbero ottunderne le capacità di discernimento: “dietro la lunga coltre di fumo / un timido uomo si è fatto giorno.” Da un punto di vista squisitamente formale, quella di Patrizia Baglione è una poesia asciutta, minimale ma diretta, chiara, assolutamente coerente con l’esergo di Emily Dickinson che ha scelto ad apertura della silloge, un inno all’ identità e sovrapponibilità di Bellezza e Verità. Leggiamo infatti: « Mi chiese sottovoce perché ero morta / gli risposi “Per la Bellezza”. “E io per la Verità, le due cose sono / una sola. Siamo fratelli” disse.