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È "La sperta e la babba" (Caffèorchidea) di Giovanna Di Marco il ConsigLIBRO Luglio 2023

02/07/2023 17:29

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È "La sperta e la babba" (Caffèorchidea) di Giovanna Di Marco il ConsigLIBRO Luglio 2023

A cura di Salvatore Massimo Fazio - ConsigLIBRO Luglio 2023 - Intervista

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Giovanna Di Marco

 

La sperta e la babba

 

Caffèorchiedea edizioni

 

Le interviste

ConsigLIBRO Luglio 2023


A cura di Salvatore Massimo Fazio

 

Lucia è una donna che crede solo alla realtà delle cose, ogni tanto però si affida alle anime dei morti per avere responsi sul futuro. Si reputa superiore agli altri per la sua forza fisica e per la sua spavalderia e spera che la sua famiglia possa riscattarsi attraverso un innalzamento sociale da ottenersi solo attraverso i titoli di studio delle figlie e la loro affermazione professionale, ma intercetta, in una di queste, colei che si prenderà cura della sua vecchiaia. All’inizio la storia si dipana nell’entroterra siciliano (Racalmuto, Caltanissetta), per poi approdare a Palermo ed è raccontata da una voce narrante di ceto popolare, che cerca di riprodurre i parossismi e le idiosincrasie della protagonista. Concetta appartiene a una minoranza alloglotta di origini albanesi e attraversa la sua lunga vita accompagnata e infervorata invece da un’altra forma di riscatto: il miglioramento della vita passa solo attraverso gli ideali socialisti di giustizia e uguaglianza. Dai Fasci siciliani dei Lavoratori e il mito del medico Nicola Barbato, ai primi anni ’80 del Novecento parla, con la sua voce, di speranze, delusioni e del disincanto nei confronti della sua stessa utopia. Queste due storie non si incontreranno mai.” Con le parole di Giovanna Di Marco, alla quale abbiamo chiesto di rappresentarci la sua opera, apriamo l'intervista che sortisce il suo esordio alla narrativa dal titolo La sperta e la babba” (Caffeorchidea edizoni, pp. 186 € 18,00). Di professione storico dell'arte nonché insegnante di Lettere la palermitana Di Marco ha ambientato questo romanzo, così anomalo e intriso di meravigliosa stilistica difficilmente da individuare altrove, prima tra Racalmuto e Caltanissetta per poi spostarlo a Palermo, città dove vive e lavora.

 

Seppur si parli di debutto è pur vero che suoi racconti sono apparsi su riviste, come “Paragone Letteratura” e in diverse collettanee. La vicenda si dipana tra due donne che mai si incontreranno, ma anche tra due epoche: la fine dell'800 e la fine degli anni '80 e questa è una soltanto delle curiosità che ci ha indotto a incontrarla e intervistarla, partendo subito da cosa cosa l'abbia spinta a scrivere di due storie parallele: «Siamo fatti di parti diverse» esordisce la Di Marco «e siamo tutti composti dalle vite di famiglie che si sono incontrate, siamo sangue mescolato. Ecco, io ho cercato di andare indietro nel tempo per risalire ai due rami familiari dai quali discendo, facendo una cesura attraverso il racconto, separando quel magma esistenziale, tagliandolo con il bisturi, attraverso ricordi o lacerti di ricordi.» Lei approda a una casa editrice schierata, che tocca temi diversi da tutto ciò che si incontra nel panorama editoriale: come l'hanno trovata i tipi di Caffeorchiedea? «Una sera a cena con un amico, Francesco Borrasso che è editor e scrittore. Ci ho scherzato sul mio manoscritto, mi ha detto: «Mandamelo!». Lo ha letto e lo ha proposto all’editore Giuseppe Avigliano. Anche quest’ultimo ha voluto credere a questo progetto ibrido, difforme. Mi hanno dato fiducia e conferito attestati di stima. E io per questo li ringrazio.» Perché esordisce con questo argomento a due vie? «Dopo la morte di mia madre, ho iniziato a appuntare i suoi proverbi, i suoi idiomi e le parole dialettali che usava per rappresentare la realtà. Avevo paura di perdere il suo patrimonio immateriale. Pian piano ho capito che dovevo raccontare una storia che esisteva già per capire meglio chi fossi. La lingua di mia madre, il suo piglio icastico, le parole che non esistono più, il suo idioletto hanno di fatto scritto la prima storia per me, come se fossi dominata da un’altra persona e scrivessi sotto dettatura. Però, quando muore l’ultimo genitore, si riapre la ferita per la perdita del primo. Anche per quanto riguarda mio padre, morto trent’anni fa, c’era già una storia ed era molto diversa, veniva da lontano, dalla lingua di una minoranza, da una lingua che non parlo, che è mia ma che ho perduto. E così ho iniziato a scrivere, immaginandone una interiore, di lingua, più aulica di quella del primo racconto, affinché innalzasse a epos le imprese di semplici contadini che avevano creduto nel Sol dell’avvenire.» 

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Dunque la volontà di preservare il ricordo di sua madre... e per chi lo hai scritto? «Esatto, l’ho scritto inizialmente perché, come dicevo, non volevo perdere la lingua di mia madre e probabilmente l’ho scritto per me stessa, per dare consistenza a racconti che già ‘vedevo’ mentre me li narravano e per dare risposta a dinamiche familiari che non mi hanno visto direttamente coinvolta, ma che mi hanno influenzato nel profondo.» “La sperta e la babba” un romanzo che, come ha definito lei è “difforme”, ma anche anomalo e fuori dai contesti della struttura tipica, potrebbe giungere a premi specifici? E Quanto la emozionerebbero? «Sinceramente non è una cosa alla quale ho mai pensato e non credo ai premi perché non credo alle gare che attestino non si sa bene cosa, poiché tutto è relativo. Sto vivendo la pubblicazione di questo libro con molto divertimento, la professione che esercito è un’altra. Credo che si debba dare il giusto peso alle cose.» Oltre al suo amico e all'editore, tra chi lo ha letto che riscontri ha ricevuto? «Riscontri spontanei e molto positivi, da addetti e non addetti al settore. Il riscontro al quale tengo di più è però quello di mia figlia, che si è commossa e divertita durante la lettura del testo.» Una curiosità non da poco, tra le migliaia che vorremmo svelasse: perché fa riferimento a Gesualdo Bufalino? «Bufalino è saltato fuori quando abbiamo scelto il titolo e ho ripensato all’improvviso alla Sicilia “sperta” e al suo opposto, la Sicilia “babb”a e alle cento e più isole che lo scrittore di Comiso aveva ipotizzato, cosciente del fatto che il loro numero fosse infinito e che ogni siciliano fosse isola e monade. Probabilmente Bufalino attribuiva alle due Sicilie (la sperta e la babba) anche un’ascendenza geografica; citare lo scrittore ha avuto per me una funzione precisa: riferirmi una dimensione solo esistenziale e dello spirito.»


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