Premessa
[Qui di seguito è presentato un estratto dalla postfazione di Paolo Pera (troppo lunga invero) all’opera terza di Gabriele Scarpelli, Sono omofobo e razzista. Non è vero, ma godo quando t’indigni (Independently published, 2021)].
Gabriele Scarpelli
Sono omofobo e razzista
(non è vero, ma godo quando t'indigni)
Independently published
Un libro sotto l'ombrellone
Le recensioni in LIBRIrtà
A cura di Paolo Pera
Il libro però non è mica tutto qui, sapete? Tutt’altro! Questa non era neppure la punta dell’iceberg, ne era semmai la cornicetta retorica d’apertura che – come vedremo nella conclusione di questo studio (per chi avrà la pazienza di leggere qualcosa di così poco “commerciale”) – si rivelerà avere un intento ancor più civile e necessario. Infatti Scarpelli lasciandoci completamente stralunati cambia di colpo vocazione a questo libro, e passa dalle invettive affettivamente dedicate ai “politicamente corretti” alla consueta narrazione di sé (e del sé), il suo tanto amato e nobile registro diaristico-confessionale. Viviamo in tempi nei quali è ben presente la distinzione tra chi formula una poesia-racconto e chi ancora tende, o almeno ci prova, alla lirica. Sono questi ultimi i più accesi critici della prima forma poetica, tra i peccati di arroganza da questi riscontrati non manca infatti l’uso di rendere i propri accoliti parte di una presunta Opera, a essi porto due esempi ben poco sconosciuti in contraddittorio: Montale forse non sublimava un gruppetto di muse rendendole eterne protagoniste della sua poesia (Clizia, la Mosca, la Volpe, ecc.)?; e poi, non è forse Proust a dire nella Recherce – e parafraso alla meno peggio – «chi sta nei pressi di un artista diventa parte della sua Opera»? In sostanza il problema non può né deve essere il diarismo: l’artista sempre scrive di sé1, semmai dosa la propria schiettezza, astrae il vissuto da sé eleggendolo a forme di canto, distinto dunque da un comune stile colloquiale. La verità però rimane questa: il lirico, per lo più, canta a sé stesso mentre il poeta che «dialoga» ha una sincera volontà di trasmettersi, egli vuole condividersi. Sarà forse questo narcisismo? No, o almeno non nella sua accezione negativa: il poeta si ama 2, e vuole usarsi per diffondere fraternità, per unificare l’altro in sé. Il poeta è anche insicuro, non per altro deve «vuotare il sacco»: egli deve svuotarsi di sé, del proprio vissuto, del proprio pensato ed essere così per sempre nuovo. Questo poeta, insomma, vive in un nulla perennemente in cerca di compensazione: egli è un esteta nella sua accezione kierkegaardiana, la novità e l’originalità gli è utile per non sprofondare in quel vuoto tanto gravoso da dover ipotizzare il proprio superamento entro un’altra cedevole forma di essere. Scarpelli non ci dà qui da intendere che un passaggio alla vita etica sia per ora tra le sue ipotesi 3, poiché in questo fare da dandy-bohémien – abitando à laBaudelaire 4 in un albergo, e avendo come assenzio l’inevitabile Coca Zero – è pure un Don Giovanni 5 (stando ancora in Kierkegaard)! Lui lo dichiara a costo di perdere subito l’opportunità di una storia, vuole essere amico di molte e non di una sola; il problema è semmai nel senso di colpa che talvolta prende ogni esteta: quella nefasta sensazione di sbagliare, di tradire la comune missione terrestre (quella affidata, presumibilmente, da Dio: «Crescete e moltiplicatevi»). Col suo senso di colpa instaura però un dialogo alla pari: «arriviamo al dunque / così gli chiedo finalmente: / cosa ti spinge a salire verso la superficie? / E lui tutto eccitato mi risponde: / “sai, ogni volta che parli di bellezza, / di edonismo, / di scansare fatiche e doveri, / vengo su / perché hai i fianchi scoperti / e potrei colpirti per bene / e farti accasciare al suolo / una volta tanto…”», il senso di colpa lo discolpa addirittura di sé: «“Certo che non è colpa tua, / ma ogni tanto salgo / per cercare di farti sentire / il pezzo di merda che sei!», insomma questa orrida creatura viene per divertirsi, mandata poi da chissà chi. Il nostro esteta un’idea c’è l’ha però, prende così piede un’altra anima del Nostro, quella libertina: «siamo esseri umani / e siamo dotati di raziocinio, / ahimè; / ci hanno ipnotizzato la nostra ragione / facendo sì / di renderla più governabile; / quale oggetto migliore / se non quello sessuale / per farci sentire sporchi / e così fottutamente sbagliati…», nelle parole del poeta c’è la condanna di un’educazione cristiana (e tossica) che ancora tenta di umiliare l’uomo per poterlo contenere, questa per esempio porta certe pulzelle a negarsi al Nostro vista la mancanza di promesse eterne, vedremo infine che anche questo è poco più di un pretesto: poiché il libertinaggio di Scarpelli è essenzialmente politico. Questo nostro diarista compulsivo, forse ancora non lo sa del tutto, si è annullato completamente nella scrittura della sua Opera: scrivere gli promette infatti un benessere possibile, «figlio di troia / scrivi, / siediti e scrivi; / scrivi perché dopo / ti sentirai meglio / a volte molto meglio / di come ti senti ora / allora siediti e scrivi / non fartelo ripetere / da quella vocina stanca / che t’implora / di dare un senso / alla tua becera esistenza». Scarpelli, in fondo, è «solo un ragazzo / che sta cercando un modo / per giungere alla fine dei suoi giorni / nella maniera più indolore possibile»: egli cerca di riempire il suo vuoto (conseguenza forse dell’inconsistenza a cui si è votato?) con l’arte, egli cerca di divenire un’opera d’arte infondendosi nella sua Opera, più dandy e decadente di così si muore! Proust pure votò i suoi ultimi anni a completare quel meraviglioso malloppone di pagine che è Alla ricerca del tempo perduto, non avrà di certo vissuto a mille ma è almeno rimasto eterno entro il suo Io narrante chiamato anch’esso Marcel. Diversamente il Nostro riempie sì il vuoto svuotandosene (paradosso? Mica tanto!), riversandolo sulla carta, ma vive pure a mille e più. Semmai gli resta quel senso di niente (assai vasto) proprio di un’altra anima dell’esteta-libertino, ossia il nichilismo di fondo del suo pensiero. Qui aprirei due parentesi: da una parte abbiamo da considerare che Scarpelli pur essendo un musicista tutto chino sugli annichilenti anni novanta (violenti e tristi) mantiene comunque un’eleganza e una cortesia, anche e soprattutto in certi scritti qui contenuti, proprio di un gran signore 6 che sa trattare (per esempio) di sesso senza scadere nel volgare; dall’altra c’è da dire che il suo nichilismo è altalenante. Se talvolta si spalma in un’apatica impotenza (vittoria della noluntas) che sa di nichilismo passivo, altre volte vuole riempire la sua esistenza di contenuto, vuole riempire l’insignificanza di significanza sua propria (nichilismo attivo). L’insensatezza del tutto – riempita di belle «ragazze finte» e no, e di una ricerca di bellezza da rivista patinata – è ormai regola: «immagina / trovarsi nei panni / di una zanzara, / una di quelle grandi come farfalle / e innocue; […] / A queste zanzare / grosse come una farfalla / non interessa nulla; / loro, senza criterio alcuno, / vagano per l’universo / in attesa di non si sa cosa… / Forse in attesa di essere slinguate / da qualche rospo affamato / o catturate / da un ragno severo; / avranno senz’altro un ruolo fondamentale / nel loro Sistema alimentare, / sicuramente, / ma una zanzara / grande e innocua come una farfalla / non dispone di alcun interesse / se non quello della mera sopravvivenza». Il poeta allora vuole scendere allo stadio di questi insetti, vuole semplicemente sopravvivere e fare una vita pacifica 7, imbrogliando il senso di niente con la bellezza. In fondo «Dio non poteva essere dappertutto / ed è per questo ha creato i poeti»: c’era bisogno, insomma, di qualcuno che vedesse il niente nella Sua creazione. La poesia confessionale, si sa, permette molti lussi: permette di dire quelle cose indicibili (e inaudite) che il verseggiatore a voce non direbbe, questo seppur sia – il poeta confessionale – sempre ed estremamente avvezzo alla sincerità e alla nudezza. Parleremmo qui, oltreché di nudezza montaigniana anche di quella scarnificazione propria di certo Rousseau, Scarpelli non vuole mostrare la pelle ma le ossa (di certo molto più bianche, pur se sanguinolente, vista la sua pelle olivastra), è in questo clima d’alta macelleria che il poeta si respinge, si dà del fallito («Sono un povero smidollato, / fallito / del cazzo, / che mangia e ingrassa / come una merda rotonda») e del non-poeta a piè spinto; in cima a questo crogiolo di auto-demonizzazione (mai del tutto auto-partecipata, ma frutto altresì di brevi momenti bui) egli della sua poesia dice costantemente: «[…] queste pagine / di versi spontanei / corredati dal niente / di un Cristo antisemita / e troppo impegnato / a non esistere», egli si divinizza mentre si annienta ed è certo del suo essere già polvere, di non aver mai scritto pur scrivendo (raro momento di lucidità per noi contemporanei inesistenti, mai davvero destinati alla posterità: giacché nel mondo artistico, si sa, diventano eterni solo i mafiosetti). L’ozio scelto dal nostro esteta-libertino-nichilista non lo soddisfa abbastanza, egli è un infelice e sente il dolore del vuoto, il gravame del nulla, ogni singolo maledetto giorno: «tutto davvero perfetto / o quasi, / eppure? / eppure, / eppure… / eppure continuo a sentirmi / male, / continuo ad avere brutti pensieri, / continuo a essere preda / di un’angoscia improvvisa, / continuo a temere ogni cosa». La storia potrebbe essere tutta qui, questo niente lo contorce in tutte le posizioni forever 8, ma non è così cari miei… Questo poeta, mannaggia a lui, già progetta la fine! La fine da concedersi (egli sarebbe allora il Mietitore di sé stesso?) nel caso in cui dovesse mai – questa sua “vita pacchiosa” – incrinarsi irreversibilmente 9, non potevamo non aspettarcelo: egli vive nel mito della nuova e vetusta gioventù bruciata, degli eroi romantici, dei drogatissimi simbolisti francesi, e lo afferma senza problemi: «mi piacciono i suicidi». Come Cobain si sente affondare: «Aiutatemi a naufragare ancora più giù / ed ora non si tratta di Lei, / non si tratta di Kurt, / non si tratta di vino, / né di pillole, / tu non sai di cosa si tratta / e non lo so neanche io», il dolore insomma non ha parola, non dà parole, non si fa comprendere. Appare questa Lei, chi sarà mai? Di certo non è una delle sue tante «amiche», deve essere – crede lo scrivente, il Pera – una qualche donna angelicata da lui per sempre persa: Lei saprebbe dare forma al suo dolore?, Saprebbe estinguerlo?, Per lei l’esteta-libertino-nichilista si darebbe alla vita etica? Domande delle domande, per forza senza risposta. Ma infine che cosa davvero mantiene in vita il poeta se non la madre? Essa è l’amata-odiata che non si vuole addolorare, non fino in fondo: «mia cara mamma, / sei il collante / che questa vita disgraziata / utilizza per tenermi a sé», la poesia confessione a mia madre si presta a essere una delle più belle del volume. Il poeta non si ucciderà, almeno finché ci sarà lei: «se non ci fossi, / mamma, / alte sarebbero le probabilità / ch’io più non ci sarei»10.
Si noti poi la chiusa, Scarpelli si sta liberando del dolore liberandosi di sé stesso (seppur mascheri tutto il libro di un’apparente egoità): «ho deciso di spogliarmi / di tutto il resto sin da ora / affinché il male / possa non avere più appigli / alla quale aggrapparsi / per riemergere in superficie», e così che «[…] la vita / potrà essere amata senz’altro, / ma solo dopo averne preso le dovute distanze». Approdo alla noluntas dicevamo. Torna così fino alla fine la dicotomia nichilismo passivo e nichilismo attivo: se nei versi appena riportati dice sì all’insensatezza del Tutto, nel penultimo testo tende a ridare significanza immaginando il suo suicidio a base di “pillole delle buonanotte”: «estrasse dal blister tutte le pillole / e se lo rovesciò nello stomaco, / lungo la gola / con un lungo sorso d’acqua / del rubinetto», la morte sarebbe così l’unico evento che al vivere dà significanza (quasi un vivere-per-morire, un essere per la morteheideggeriano senza alcun ottimismo di fondo: comprendersi mortali non darebbe inizio a un progetto d’esistenza compiuta ma – alla Michelstaedter – farebbe solo desiderare la risalita alla fonte del nulla, la nascita, mediante la morte). Perché non farlo? «[…] non ci può essere / una degna sepoltura / che rispetti i patimenti / subiti in vita», questa controindicazione (seppur la morte prima o poi arrivi davvero) potrebbe essere sufficiente? To be continued...
Note
1 Dice Scarpelli: «la biografia è ciò che fa l’artista; / la vera forma d’arte / dell’artista è la sua biografia» (gente piena).
2 Ha difatti l’«Io obeso» …
3 «[…] non desidero nulla / se non il tempo per potermi grattare / quando mi pare / senza dover pensare / al reddito, / alla fidanzata, / alla famiglia, / ai doveri / e a tutte quelle altre faccende / intente a stuprarmi l’esistenza / più di quanto non lo faccia già / da sé» (confessione).
4 Trafitto poi da certe vampate di Spleen: «ti sei mai chiesto / se le stanze degli hotel / avessero un’anima?» (le stanze degli hotel); oppure «una blatta cammina per terra / su questo pavimento umido, / ripete lo stesso percorso / da tre quarti d’ora / ormai; / chissà se è felice, / chissà se per lei / qualcosa nella sua / apparente misera esistenza / abbia un senso, / chissà…» (blatte e risvegli).
5 Per esempio: «ci sono troppe belle ragazze, / troppi sguardi da incrociare / troppi profili da guardare» (chi l’ha detto che il troppo stroppia?); oppure: «la tua infinita classe armonica / rende Dio, o chi per esso, / orgoglioso di sé stesso» (forse non lo sai); e ancora: «quando il mio sguardo / s’incrocia con quello di una lei così bella / le fatiche del corpo, / della mente, / del cuore / si votano al senso / ed io torno ad avere meno fame, / meno sete», esso è dunque beatificato – quasi fosse di fronte a Dio – se vede una donna, chiama infatti questa diramazione del suo estetismo dongiovannesco beatricismo.
6 Talvolta messo però a durissima prova: «Sai che basterebbe una parola mal detta / per compromettere / tre anni e più / di gentilezza e accortezze?» (il male è più pesante del bene).
7 Si veda la poesia voglio solo vivere tranquillo: «la verità / è che nulla dispone di un senso; / forse l’ho eliminato io / o forse / non c’è mai realmente stato / e le persone non lo sanno / credono così di averne molto». Vero, eppure Scarpelli sbaglia a togliersi di dosso il titolo da sempre desiderato, poiché egli (lo ripetiamo) è poeta e ciò non toglie che sia niente al contempo: «sapete che c’è? / C’è che non ne vale la pena; / io non sono un poeta, / io sono niente / e non voglio / essere qualcosa, / voglio solo vivere / tranquillo, / ok?».
8 Si vedano questi versi: «più cerchi di dare / significato alla tua vita / più lei ne perde» (un presente passato troppo in fretta), l’insignificanza è dunque il significato?
9 Si consideri: «[…] sarò il primo a saltare / insieme ai miei nervi precari» (fa sempre più freddo).
10 Ma pure: «non vedo l’ora di morire, / mi eccita l’idea! / Ma solo dopo mia madre…».
L'autore
Gabriele Scarpelli è nato a Moncalieri (TO) il 12 agosto 1988. Cresciuto a Torre Pellice, una delle valli in provincia di Torino, poi trasferitosi a Pinerolo (TO) dopo il 2013. Ha iniziato a scrivere versi e canzoni all'età di quindici anni, nel 2003. Music producer e ghostwriter di professione dal 2010; nel 2017, a seguito dell'ennesima ricaduta depressiva, decide di abbandonare definitivamente il suo lavoro e l'appartamento dove risiedeva per dedicarsi in linea esclusiva alla scrittura per sé, trasferendo la sua dimora e il suo studio nella stanza di un hotel nei pressi della città di Pinerolo.
Il libro
Titolo: Sono omofobo e razzista
Edizioni: Independently published
Prezzo: € 11,90