L'ultima recensione dell'anno 2021 per il nostro Blog, è firmata da Sabrina Di Martino. È la terza di cinque della partnership firmanta da noi con la prestigiosa Scuola di Scrittura "Aleph" di Catania, che ringraziamo per averci scelto, proponendo questo bel progetto.
Buon anno!
Fëdor Dostoevskij
Le notti bianche
Le recensioni di Sabrina Di Martino per Aleph, Scuola di scrittura e Letto, riletto, recensito!
Una Pietroburgo silente, quasi addormentata, nascosta e impalpabile tra le maglie di un velo invisibile, fa da sfondo agli incontri notturni tra un sognatore e la giovane Nasten’ka: queste “le notti bianche” raccontate da Fëdor Dostoevskij, nel romanzo omonimo del 1848.
La città russa è prima protagonista dell’opera, quasi in absentia, ridotta ai minimi termini. Ci appare come palcoscenico deserto, scarnificato, dimesso, diventa espressione emblematica della solitudine di un uomo, il sognatore, l’ultimo rimasto in città, che pare poter intrecciare dei legami reali unicamente con i suoi palazzi vuoti e le strade oramai spoglie, che conosce a memoria. Siamo lontani dalla Pietroburgo sovraffollata dei racconti di Gogol, così come da quella di Puskin e delle successive opere dello stesso Dostoevskij: ne “Le Notti Bianche” l’autore descrive la sua città - feticcio con toni elegiaci, estatici e inquieti al contempo, focalizzandosi su singoli dettagli, su specifici frammenti di paesaggio, come il lungofiume, la ringhiera di un canale, una panchina, i luoghi da cui vedremo il lento dipanare dell’azione.
In un tempo sospeso e quasi magico, scandito unicamente dal progredire delle notti, questo anonimo e non meglio specificato sognatore vive un’avventura inattesa: in quella che ci viene detta essere una “notte incantevole”, di quelle che “possono forse capitare solo quando siamo giovani”, l’uomo si imbatte nella bella Nasten’ka, che lo ridesta dal suo muto dialogo con le cose.
Per il sognatore l’incontro con la giovane è una vera folgorazione, il primo vero contatto con una realtà a lui, da sempre, estranea e inaccessibile. Nasten’ka è vita, nella sua espressione più vigorosa ed entusiasmante, diventa corpo dei suoi sogni amorosi, dei suoi desideri e delle sue speranze, vera (e poi fittizia) possibilità di infrangere l’immaginario sterile e vuoto a cui era confinato, e condannato, il suo esistere.
In tal senso, i due appaiono personaggi speculari e opposti, l’uno il completamento dell’altro, la parte mancante, specie Nasten’ka per il bramoso sognatore. Le loro notti bianche sono ricolme di parole, intessute di dialoghi, a tal punto da renderli due “pure voci” come sottolineato da Bachtin nella sua analisi sulla poetica di Dostoevskij.
Il sognatore, in queste occasioni, si racconta alla donna presentandosi quasi come una figura sommersa, del sottosuolo, degli interstizi, di “angoletti piuttosto strani” di una Pietroburgo diversa, paragonata a un regno sconosciuto ai confini del mondo, nella quale si vive una vita completamente differente da quella degli altri, definita dall’uomo stesso come vorticosa mescolanza di “qualcosa di puramente fantastico, di ardentemente ideale e, insieme, di vuotamente banale e prosaico”.
In tal senso, anche il sognatore appare come creatura totalmente altra. Non è più persona, non è solo un uomo, ma un “essere di genere neutro”, quasi una labile astrazione. Il lettore lo riconosce, nel procedere del suo lento e affannoso periodare, solo attraverso le sue fantasticherie, parte integrante e quasi unico elemento identificativo del suo essere. Se questi appare totalmente avviluppato ai propri ideali romantici e sogni amorosi, Nasten’ka, invece, vive e conosce il sentimento, pur nel distacco e nella privazione, e ne parla al sognatore con voce ben più disinvolta e spontanea, alimentando in lui la speranza di potersi finalmente riallacciare alla vita.
Questo breve ma intenso valzer di incontri notturni si conclude, in maniera eloquente, con un mattino, che per il sognatore è dolorosa presa di coscienza della fine delle illusioni, ma anche sincero tributo all’amore, rinfrancante, rispetto alla vita umana e terrena, tanto nella sua pienezza e totalità, quanto nel suo solo essere fugace istante di beatitudine.
Sabrina Di Martino
Catanese (giarrese) di nascita, bolognese di adozione. Dopo aver conseguito la laurea in Lettere Moderne, studia Italianistica nell’antico ateneo emiliano.
Da sempre appassionata di lettura e scrittura, ha collaborato con diversi blog, legati principalmente al mondo del cinema e delle serie televisive.
Ha frequentato la scuola Aleph, a cura della Villaggio Maori Edizioni di Catania, con l’intento di conoscere il più possibile tutte le sfaccettature della scrittura, alimentando un rapporto già profondo e viscerale. Scrivere è infatti un imperativo categorico e imprescindibile, un’ambizione, un sogno.