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L'ipotesi introduttiva della morte dell'autore

10/04/2025 00:01

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L'ipotesi introduttiva della morte dell'autore

Le recensioni in LIBRIrtà a cura di Gianfranco Cefalì

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A cura di Gianfranco Cefalì

 

    Diorama: ci sono tre stagioni, autunno, inverno, primavera. C’è una villa, in mezzo al nulla, che di nulla non ha niente, perché è la natura che vive, con le sue colline, i costoni rocciosi, le montagne, le vallate incantanti. C’è una quercia, degli animali, una macchina, delle persone. Minuscole come solo la riduzione in scala sa riprodurre, si vedono i vestiti, i movimenti, soprattutto delle mani, sono alzate, tirano palle di neve, qualcuno cammina, per la montagna, per i sentieri, altri sono chiusi in casa, altri aspettano affacciati alle finestre. E si notano i cambiamenti, perché ci sono tutte e tre le stagioni, il grigio soleggiato dell’autunno con l’ultimo calore da sfruttare, il freddo inclemente, con la neve che ammanta tutto, tutti, e poi la primavera, che ha il sapore della rinascita solo per la natura.

    Tableau vivant: è un’ultima cena. In famiglia. Finalmente si possono vedere, seppur statiche, le facce, i volti dei personaggi, possiamo vederne gli occhi, gli sguardi indirizzati a qualcuno, verso qualcosa, ne possiamo cogliere le sfumature, i sorrisi sardonici, i muscoli tirati, i colori che mutano a seconda della luce, luce che fa risaltare le ombre. Possiamo percepire il chiaroscuro delle esistenze. Sono tutti seduti, qualcuno in disparte, qualcuno si isola, gli altri sembrano essere alle prese con grandi passioni, ma è solo un fermo immagine in tre dimensioni e la cosa più importante è l’atmosfera, la percezione che nonostante le feste, nonostante il Natale, qualcosa non vada, sembra ci sia un alone grigio, come le nuvole che fuori fanno da culla ai temporali, alla neve. L’immagine vivida restituisce una serie di frammenti, una piccola serie di scatti, è come se nel totale ancora fosse principale la singolarità dell’individuo.

    Teatro: e adesso siamo in mezzo all’azione. Ma siamo soli, unici spettatori di questo dramma. Possiamo finalmente vedere i movimenti, percepire le voci, sentire i suoni, diegetici, non c’è colonna sonora, non serve, la drammatizzazione avviene tramite le parole, i gesti, non c’è alcun bisogno di sottolineare nulla con la musica, basta il rumore dei passi, dell’acqua, della terra che frana, del tuono, del vento, forse il ruglio di un orso. Sentiamo delle grida, dei richiami, delle parole che si intrecciano e spingono per uscire da bocche che hanno lasciato per troppo tempo labbra sigillate, soprattutto tra di loro, oppure sentire il rumore di milioni di farfalle. E non ci sono personaggi in cerca d’autore, casomai sono in cerca di una ragione, per vivere, per morire, per amare, per odiare, per combattere, per scuotersi, per tradire, per non farlo, per accettare, per distruggersi, per essere se stessi e rinnegarsi.

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Monologhi: è arrivato il tempo della parola da offrire. Serve a molto, potrebbe servire ad alcuni, perché sono parole di guerra, di pace, d’amore, di storia, di storie. Sono parole che servono per intrecciare, per ravvivare, per tentare di trovare la giusta via, servono le parole per mettere fine alla battaglia, alle rappresaglie, servono per poter dire quello che non si è detto durante una vita intera. E sono monologhi lucidi e solo sfiorati dalla malinconia, sono schietti, sono intensi e hanno un corpo, un peso, un’anima. Vorrebbero essere movimento, azione da poter e voler fare, sono parole che vorrebbero accudire, proteggere, manifestare. Sono recitati sulla carta in missive per quelle persone importanti, che sono amate, odiate, che sono figli, madri, genitori, che hanno perso tutto o vorrebbero conquistare tutto. Sono parole d’amore, di scuse, di sofferenza, di addio.

    Fabio Massimo Franceschelli ci porta all’interno di una strana famiglia, ma ci rendiamo conto subito che di strano non c’è nulla, perché è una semplice famiglia disfunzionale, all’interno della quale nascono e crescono sentimenti contrastanti, drammi, vere e proprie tragedie e un senso di colpa che investe tutti i protagonisti.

    L’autore ha una scrittura raffinata e colta, e non manca quell’ironia, alle volte tagliente, alle volte frivola, che garantisce al testo piccole pause; fluidità data anche dal bel ritmo e da una struttura molto ben congegnata che lascia al lettore il tempo della riflessione, i capitoli brevi fanno sì che la lettura sia sempre affamata dall’intreccio e sarà difficile fermarsi per troppo tempo.

    Sarebbe banale dire che questo romanzo parla solo della famiglia, magari borghese, l’autore si spinge oltre e sono raccontati bene, e senza una sovrapproduzione di parole e capitoli inutili, i rapporti tra genitori e figli, gli errori dei padri che si trasmettono come tare ai figli, figli che sembrano non saper imparare proprio dagli errori dei padri e scappano da un passato che non hanno vissuto o hanno vissuto a metà. C’è la guerra onnipresente dentro i pensieri del padre, c’è la storia, la storia che sembra non avere più importanza e che invece andrebbe scoperta, riscoperta, non è un elogio al passato, ma un modo di guardare al mondo e alla società avendo sempre presente non solo gli errori del passato che tutti continuiamo a commettere e che sembrano non insegnarci nulla, ma anche le meraviglie di un passato storico che ha attraversato i secoli per arrivare fino a noi. Si incontra anche la natura, con i suoi spazi, la sua grandezza, con l’onnipresenza dei colori, dei rumori, della vita, un perfetto mantello che protegge e riscalda, ma che sa essere minaccioso e umbratile quando la luce scompare per far posto alle nuvole grigie o alle notti stellate. L’autore riesce anche a parlarci di un nuovo vecchio modo di concepire la politica e dell’arroganza di un certo modo di fare che sembra non abbia mai lasciato la nazione. Ma è la vita in tutte le sue piccole e grandi tragedie che è sviscerata in questo romanzo, restituendo al lettore uomini e donne normali, non esistono gli eroi, tutti sbagliano, tutti noi sbagliamo e tutti noi dovremmo essere pronti a pagarne le conseguenze, ogni personaggio ha la sua storia, ben delineata, ha le sue colpe, la sua arroganza, i suoi difetti, i suoi tradimenti, i suoi segreti, il suo senso della vita, ma nulla è giudicante o giudicato, è come un affresco ben caratterizzato e i personaggi non si lasciano trascinare dal racconto, dai racconti, dalla storia, ma svettano ognuno a modo loro, con forti tentennamenti e crisi, risolvibili, irrisolvibili.

    Concludo dicendo che vedrei bene una trasposizione per il teatro, l’autore drammaturgo ha usato infatti la sua sapienza per dare forma al romanzo, riesce a gestire trama, intreccio e la storia in modo ineccepibile. Vedrei bene anche una trasposizione cinematografica. Un romanzo che colpisce e lascia l’amaro in bocca, non cedendo alla stucchevole faciloneria dei buoni sentimenti e del lieto fine.


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