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Giuseppe Conte - Non finirò di scrivere sul mare - Mondadori

22/12/2020 00:01

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Giuseppe Conte - Non finirò di scrivere sul mare - Mondadori

Giuseppe Conte - Non finirò di scrivere sul mare - Mondadori - L'angolo della poesia - A cura di Paolo Pera

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Giuseppe Conte

 

 

Non finirò di scrivere sul mare

 

 

Mondadori

 

 

 

L'angolo della poesia


IL VECCHIO E IL MARE

A cura di Paolo Pera

 

La nuova opera di Giuseppe ConteNon finirò di scrivere sul mare (Mondadori, 2019), si presenta come un lascito morale, un manifesto umano e poetico. Il titolo di questa silloge viene dal poemetto d’apertura, già apparso in conclusione alla trentennale antologia contiana edita negli Oscar Poesia (ibidem, 2015). Non finirò di scrivere sul mare. / Non finirò di cantare / quello che c’è in lui di estatico /quello che c’è in lui di abissale / la sua vastità disumana / senza pesantezza, senza un vero confine / la sua aridità senza sete, senza spire / le sue forme in perenne mutamento / sottomesse alle nuvole, al vento / e al cammino in cielo della luna. Già l’incipit del poemetto sembra essere il programma dell’opera intera, essa infatti contiene il costante dialogo d’un uomo che ha guardato al mare per tutta la vita e che ancora intende farlo, come leggiamo nell’ultimo componimento della raccolta (Non c’è un’Itaca): Così ancora oggi che l’età mi preme / sulle spalle e mi piega, vado su una zattera / alla deriva, solo, in attesa dell’ultimo / naufragio, della tempesta definitiva.

 

   Questo volume non è solo la «confessione d’un navigatore», è anche una sorta di trattato intorno al concetto mare (non dimentichiamoci infatti la formazione estetico-filosofica di Conte), come riconosce in diverse interviste il maestro ligure ha ritenuto d’usare quest’ampio elemento per parlare pure d’infinito, quando dice: «Non finirò di scrivere sul mare» egli intende anche dichiarare un’impossibilità (positiva), l’impossibilità di compendiare l’infinitezza, l’assoluto. In un certo qual modo il mare qui diventa pure una metafora di Dio, ancor di più se preso da un’angolatura spinoziana che sia pronta a identificare la natura con uno solo dei suoi componenti, il mare appunto. L’uomo è dunque incapace di portare a termine la ricerca di quanto lo contiene e lo sovrasta, gli è però consentito d’avvicinarsi – per quanto le capacità lo permettano – al proprio grado di verità, traendo così la sua limitatissima comprensione dell’infinito (quasi come l’auriga platonico). Ecco allora quanto ha cercato di fare Conte: alzare lo sguardo per vedere quanto più possibile quel mare che l’ha assistito in ogni momento, e che gli è sempre stato compagno. Oltre a ciò il poeta ci consegna pure degli ottimi quadretti domestici, la ballata La morte di una medusa, per esempio, dove la limitatezza (o disabitudine?) dell’uomo porta a far perire una porzione «addomesticata» di mare. L’uomo non sa comportarsi con ciò che lo supera, difatti lo imbruttisce involontariamente, lo consuma…

 

   Questo viene lamentato da Conte in svariati passaggi del libro, la caduta iper-relativistica dell’Occidente ne è la dimostrazione (basti vedere l’odierno degrado della poesia, che non permette più alcun commercio con la bellezza); in testi come E non dimenticarti mai del mare (il momento più potente e toccante dell’opera, a mio avviso, poiché si preannuncia come la lettera al figlio che il poeta non ebbe) leggiamo questi versi: abbi cura della tua anima / solo così saprai che il corpo è sacro […] / Non lasciare mai che ti avvicinino / i corrotti, gli ipocriti, i sofisti / quelli che dicono che niente vale / che non esiste nessuna verità / che il bene è indistinguibile dal male / che regnano sul mondo l’avidità e la frode / e frodano per avere, accumulare. […] / Prega, se non sai chi e non sai come / prega lo spirito che soffia nelle cose, / meglio del nulla è anche un Dio senza nome.​ Al fondo di questa lunga lirica scopriamo d’essere noi tutti i figli del poeta, d’essere i veri destinatari della sua «preghiera»: figlio che non abbiamo avuto / figlio a cui ora è inutile parlare. / Ma tu, chiunque ti abbia generato, / ama la libertà, cerca la gioia / e non dimenticarti mai del mare.​ Se qui il poeta ci chiede di non smarrire quanto conduce alla verità – il bene e il giusto – in altre parti si confessa fraternamente; in fondo, come dice nel testo finale, sono andato lasciando che la rotta / la decidessero le vele e il vento, / me ne stavo sottocoperta ad annotare…​

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In questo poeta v’è il desiderio di presentarsi al proprio lettore come un «innocente»: Non ho mai conosciuto il mestiere / della colpa e della santità. / Mi sono sempre sentito innocente, almeno in questo ti somiglio. / Sono stato per troppo tempo figlio / di una gioia senza nome; e poi: Sono stato innocente e peccatore. / Se peccato è lasciarsi trascinare delle onde…​ Sembrerebbe dunque che la sua innocenza venga da una condizione attiva, dal perseguimento della giustizia, altresì la colpa deriva dal galleggiamento passivo sul pelago dell’esistenza. Il poeta è innocente esattamente come il mare, poiché entrambi dispongono tutto per il meglio; ridando pure un volto e un nome agli affogati di quest’ultimo decennio… Dirigendoci alla fine del libro troviamo una strana ambivalenza: il poeta parrebbe identificarsi nell’Ulisse viaggiatore, anche dentro lo sconfinato internet, ma eccolo svelarsi pure come l’Omero di sé stesso (con versi ripresi da Mandel’štam1, come ammette nelle note): Sanno ancora cos’è il solstizio d’estate […] / quelli che sanno che è l’amore a muovere tutto, che è / l’amore che muove Omero e muove il mare. Diceva infatti, nella preghiera al figlio mai avuto (e a noi), tu costruisci, inventa, narra / la tua vita a te stesso… Giunti alla conclusione di quest’Odissea ci aspetteremmo che il poeta possa trovare la quiete e vivere felicemente, come nelle fiabe, ma Conte non riconosce una Patria ultima cui giungere: il navigatore abita solo il mare, non può stare a lungo a Itaca. Galleggiando sulla sua zattera, di anno in anno sempre più labile, egli si accomiata così: Ma sino all’ultimo amerò questo mare / mi dirò che ne è valsa la pena / che è stato bello anche così viaggiare / che per me l’unica meta è stata vivere.


Note
1
 L’amore tutto muove – muove Omero e il suo mare. / A chi presterò ascolto? Ma ecco tace Omero, / ed enfaticamente strepita un mare nero / che con un greve rombo si addossa al capezzale. (da «Notte d’insonnia. Omero. Vele tese laggiù» di Osip Ėmil’evič Mandel’štam).