
A cura di Paolo Pera
La contadina di Giuseppina Biondo, (Puntoacapo Editrice, 2020), è una silloge di poesie d’amore e di mutamento, impreziosita per di più dalla prefazione di Giuseppe Conte.
L’animo della poetessa si manifesta anzitutto nella prima sezione, dov’è presente un manifesto di femminilità amorosa di fronte al quale chiunque avesse una cultura soltanto al maschile – rispetto alla poesia d’amore, appunto – comincerebbe a interrogarsi: la donna dunque non è solo l’oggetto verso cui si indirizza l’amore, ma è soprattutto il soggetto che lo coglie e che lo restituisce! Con una versificazione per lo più libera, ma giusta e godibile (caso genuinamente raro rispetto al vastissimo uso contemporaneo della forma aperta…), la Nostra si professa in alcuni manifesti: «Io non voglio sapere se sei innamorata, / o di chi, ma cosa ti innamora?», essa sembra aspettare questa domanda. La Biondo cela il proprio sentimento, lo custodisce come una cosa caduca, se lo riserva per sfruttarlo lei sola: «Sono certa che tu non sappia del mio amore / ed è proprio questo il mio intento: che tu non lo sappia / e che io ne scriva poesie». Anche la relazione tra due persone, coi rispettivi cellulari a mo’ di bacialè, risulta interessante: «Mi hai inviato un audio messaggio nella chat, / mi è andato il sangue alla testa prima ancora d’averlo ascoltato». Poi, quasi in una lotta contro gli antichi costumi in amore, la poetessa dice:
«Non dire “Ti ho” a chi ami, / di’ piuttosto “Chi amo mi ha”. / Ti ho, a pronunciarlo, non sembra l’inizio di Ti odio? / Mi ha, a pronunciarlo, non sembra l’inizio di Mi ama?» Insomma, quelle di Biondo sembrano vere e proprie ricerche sul significato del sentimento che tutto raccoglie e tutto muove, almeno nella sua realizzazione entro l’umano. Questa prima sezione si dimostra poi una reale storia d’amore, conclusasi con l’ultima poesia in una sorta di repentino cambiamento nella Nostra: «Non potevi saperlo, che divengo spietata, / se non desidero. / / Ma questo non lo sapevo neppure io: / che divengo spietata, se non scrivo belle poesie / d’amore».
Entrando nella sezione dei mutamenti e delle distrazioni incontriamo sùbito la protagonista del nostro testo: la contadina che balla e salta e vive gioiosamente la propria infanzia scavando la terra1 e sentendosi parte di questa.

Biondo confessa che questo poemetto (posizionato nell’ideale metà del libro) nasce da un sogno, essendo pure l’opera più “anziana” della raccolta: si tratta difatti di una visione, un cucciolo di donna (di kiplingiana memoria) quasi come il Dante2 del primo Canto dell’Inferno fugge dall’inquietante pantera (nera fiera, forse la Morte?) saltando di zolla in zolla, di strofa in strofa, a suon di ritornello nel quale ogni volta la pantera torna. Quest’ultimo, il ritornello, sembrerebbe avere la stessa funzione della “scappatoia” dantesca (lo svenimento), utile a scendere i gironi. Biondo – ovvero la contadina del proprio universo – sembra descrivere le mutazioni della bambina che fu, mutazioni che a turno la uccidono, o che le chiedono di sacrificare sé stessa per poter divenire altro: per poter crescere… «Divenni albero all’improvviso / e si compì la mia metamorfosi»: è così che quest’accumulo di uccisioni della contadina, non tanto da parte della bestia nera quanto da Biondo stessa, la condannano al girone dei suicidi, là dove essere
pianta – pur sembrando una dannazione – è invero una grazia, il ben poco mascherato desiderio della nostra contadinella.
Procediamo allora tra minori mutazioni per arrivare poi alle distrazioni conclusive. Quella di noi tutti sembrerebbe essere il mal pensiero che porta gli uomini a “falsificare” il pianeta: «Qualcuno deve averlo capito sin dall’inizio del tempo, / qualcuno deve averlo saputo; / che tanto ci saremmo distratti dal pensiero / della morte che avremmo ucciso il nostro / ambiente».
«Tutto è un distrarsi / in finita attesa», dice poi la nostra contadina-Biondo (su tutt’altri piani di pensiero): «Tutto, tutto lo è, tranne forse la malattia», questo perché soffrire e morire ci ricorda d’essere natura? Una natura che ha ammalato la Natura? Se tutto è distrazione, pure l’amore – fin troppo reo d’averci elevato dalla condizione di uomini, d’averci fatto dimenticare la nostra labilità! –, il solo ricordo della fine ci farà dunque avere cura del tutto che abitiamo. Pure se i suoi attuali scompensi già ci dànno la necessaria preoccupazione…
Note
1 «Sono quella che scalpita, / quella che medita, / quella che semina, / quella che raccoglie».
2 Come già suggeriva Giuseppe Conte...