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Marta Aiello con 'Stranieri a casa nostra' (Robin, 2020) scuote l'individualismo a favore della collettività

21/10/2020 01:01

Admin

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Marta Aiello con 'Stranieri a casa nostra' (Robin, 2020) scuote l'individualismo a favore della collettività - L'intervista di Federica Duello

Marta Aiello con 'Stranieri a casa nostra' (Robin, 2020) scuote l'individualismo a favore della collettività - L'intervista di Federica Duello

Stranieri a casa nostra (Robin, 2020) di Marta Aiello è un libro che ci risveglia dalla realtà individuale per inserisci in quella collettiva, per ricordarci che, diversamente da ciò che il nostro contesto geografico porterebbe a farci credere, “nessun uomo è un’isola”: siamo un tutt’uno, e il discorso non riguarda esclusivamente gli esseri umani. (Il fotogramma di apertura è copyright di Aracnetv).

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A cura di Federica Duello

 

È con me Marta Aiello, vincitrice del Premio “Sicilia” al Festival Letterario Etnabook 2020, autrice del libro “Stranieri a casa nostra” (Robin, 2020), una raccolta di racconti al passo con la società odierna, con un occhio particolare a quella di Catania. Nella sua piccola antologia di storie, Marta disegna una città, la sua, che si divide tra un’identità, la propria e inconfondibile (attraverso riconoscibilissimi indizi toponomastici come via Etnea, la sciara, via Santa Filomena e il quartiere di San Berillo) e la voglia di omologazione alla realtà globale (ed ecco Ikea, la Palestra Virgin Active, l’hinterland di Gravina e Valverde con le villette a schiera e i centri commerciali). Catania appare così un agglomerato di storie che avvengono in luoghi non luoghi. Marta, cosa ti ha spinto a scrivere di questi piccoli mondi?

«Come hai già detto, le realtà culturali locali incoraggiate da una politica che punta alla valorizzazione del territorio esistono parallelamente a spinte che favoriscono un processo di spersonalizzazione atte a renderle simili a qualunque altra piccola città del terzo millennio. Il problema esiste da quando la globalizzazione ha cominciato a fare la propria comparsa, ma è vero che oggi la questione è più complicata, se non altro in termini strettamente politici: se da una parte è vero che fino a poco tempo fa la tutela dell’identità era soprattutto appannaggio di una Sinistra progressista che mirava al recupero di valori e tradizioni senza alcun intento ‘nazionalistico’, oggi la volontà di difesa del patrimonio cittadino è diventata un argomento congeniale alle Destre come baluardo contro qualunque arricchimento di chiunque provenga dall’esterno. Per quanto mi riguarda, ho voluto raccontare storie di gente comune che avessero di sfondo la città di Catania da far comparire come la quinta di un teatro; una Catania un po’ fuori dagli stereotipi, da guardare con gli occhi di oggi, lontana ormai dall’immagine letteraria (di superba tradizione, sia chiaro!) che grandissimi scrittori come Tempio, Verga, De Roberto, Brancati, Addamo, Sapienza e tanti altri hanno contribuito a creare».

 

 

Inseriti in contesti che non ci rappresentano, viviamo con il costante desiderio di fuggire e costruire le nostre realtà altrove. Hai scritto della tua esperienza personale o di ciò che vedi succederti intorno?

«Siamo sempre autobiografici: non esistono storie che raccontiamo senza esserci immersi dentro fino ai polpacci. Non ha alcuna importanza se quella che raccontiamo non è la ‘nostra’ storia nel senso che i fatti narrati non sono accaduti a noi in prima persona perché la sensibilità con cui indossiamo le vite degli altri è la nostra e tutte le storie sono quindi, se non in senso stretto, le ‘nostre’. Se questo non succede, se noi non entriamo in prima persona coi nostri sentimenti, col nostro vissuto personale, con le nostre fragilità dentro la vicenda narrata, il lettore se ne accorge e ci molla. Se non ci crediamo noi, perché dovrebbe crederci lui? Quanto poi all’ ‘esperienza personale’, le cose raccontate, la realtà immaginata è una realtà essa stessa. Esiste. Ha dignità di realtà prodotta dalla nostra fantasia, e non è affatto meno reale di ciò che ci sembra possa essere definito ‘reale’. Dovunque abbiamo investito cuore e verità di sentire, lì c’è la nostra ‘esperienza personale’».

 

 

Sono molte le cose che dovrebbero cambiare in questa città?

«Sono sempre tante e molte le conosciamo a memoria. Forse si può aggiungere, specificatamente per Catania, che si dovrebbe tornare a valorizzare una delle cose che l’hanno resa più sé stessa. Mi riferisco alla musica. Non dimentichiamo che Catania è la città di Pacini e di Bellini; è anche il luogo natìo di un certo cantautorato di ottimo livello che ha prodotto, negli ultimi trent’anni in qua, una significativa qualità dell’esecuzione musicale, professionale ma anche amatoriale, che una certa politica miope sta purtroppo completamente trascurando. Ridare valore a questa specificità, a questa diffusa competenza musicale che è sviluppata a Catania più che in altre città italiane, è urgente».

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Cosa pensi che cambi, tra gli stranieri “locali” e quelli forestieri, nella percezione della estraneità al contesto che si vive?

«Essere stranieri (ovviamente qua non si fa riferimento ai turisti) in un contesto chiuso da chi urla “tutto mio, tutto mio” significa troppo spesso subire la fame, la solitudine, l’ingiustizia, la disperazione. Esiste però anche un altro modo di essere ‘stranieri’ e per quello non serve trovarsi in un paese sconosciuto, e ci ritroviamo a essere noi, gli stranieri nelle nostre case che pur conosciamo a memoria; stranieri nelle nostre relazioni sentimentali, nelle nostre famiglie e in definitiva nelle nostre stesse vite. Tutti noi subiamo la fame, l’ingiustizia, la solitudine e la disperazione. In altre forme, certo, ma non per questo meno gravi. Tutti noi conosciamo bene la fame d’amore, di giustizia, quando il suo opposto, ormai virus propagato a tutti i livelli, ci guasta le giornate, o la fame d’affetto, quando l’isolamento incurabile ci seppellisce circondati da relazioni superficiali. Tutti noi perdiamo continuamente l’equilibrio che ci guadagniamo ogni giorno con fatica, tutti rischiamo di sconfinare nella disperazione, nel caso niente affatto impossibile, in cui ci vengano sottratti quei punti di riferimento su cui abbiamo investito tutto. Nel mio libro espongo chiari esempi pratici di ciò di cui sto parlando: situazioni che potrebbero verosimilmente accadere a chiunque di noi: racconto del ragazzina già sconfortata nonostante la giovane età, che ha già realizzato che “studiamo qui per poi andare a ingrassare PIL stranieri”, dell’avvocato (sinonimo di legalità) che parteggia per quella destra politica di cui parlavo prima, e così via».

Chi dovrebbe leggere il tuo libro, e perché?

«Questi racconti non parlano di migranti e non parlano di stranieri nel senso che comunemente diamo a questa parola. Parlano invece di storie ‘normali’, di mamme e bambini da allattare, di padri di famiglia che vivono con insofferenza le feste dei compagnetti dei figli, di donne senza amore che spingono avanti la famiglia e sacrificano la loro felicità. C’è persino un racconto sulla scuola, ambientato proprio allo ‘Spedalieri’, uno dei licei più noti e storici della città di Catania. Penso che queste storie possano interessare a tutti quelli che, come me, si vedono presi dentro la fatica del vivere e non perdono però una certa passione per continuare a farlo ogni giorno».