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Raffaele Floris - Mattoni a vista - Puntoacapo

30/12/2020 00:01

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Raffaele Floris - Mattoni a vista - Puntoacapo

Raffaele Floris - Mattoni a vista - Puntoacapo - L'angolo della poesia - A cura di Paolo Pera

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Raffaele Floris

 

 

Mattoni a vista

 

 

puntoacapo

 

 

L'angolo della poesia


L'OMBRA DEL CHIAROSCURO

A cura di Paolo Pera

 

L’opera di Raffaele Floris intitolata Mattoni a vista (puntoacapo Editrice, 2017) si presenta come un magro libricino pieno di commozione per i tempi nei quali le case – una volta azzurre – erano basse e grigie; traboccante pure d’una gentile malinconia per un’assenza (una scomparsa?) nella vita del poeta, che lo spinge infatti in una lunga preghiera (seppur nascosto dalla violenza delle nebbie).

 

I mattoni (oramai) a vista parrebbero identificare una tendenza che domina i tempi odierni: la povertà dell’intonaco scolorito della campagna piemontese lascia dunque il posto a mattoni […] / sabbiati finemente, ornamenti per impreziosire l’esteriorità, ma lì dietro i bambini giocano da soli / col computer ultimo modello / e forse non sanno che la stufa a legna / un tempo riscaldava soltanto la cucina / e anneriva il muro a poco a poco. Insomma la necessità di tali mattoni impoverisce l’interno delle case (e i loro abitatori!) di quella consuetudine così preziosa che solo la povertà sapeva delicatamente imporre. Nel poeta difatti v’è il lamento di questa perdita, il lamento di quanto i giovani hanno perduto per sempre: un mondo «estetico» che seppe arricchire la fantasia delle generazioni che oggi sono “grandi”.

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Dopo alcuni vividi scorci nella sua infanzia, Mio nonno aspettava il tramonto sulla sedia di vimini…, e qualche ulteriore e arguta frecciatina all’iper-capitalistico contemporaneo, Il centro commerciale è come un tempio […] / moltiplica i talenti, proclamando / solenne il giubileo del tre per due, Floris delinea una certa «sventura d’invecchiare» poi amplificata nella seconda sezione del libro: D’estate, al paese, / c’è sempre una vecchia che ascolta il silenzio, […] / adesso ha le gambe tumefatte […] / adesso ha le mani di creta. […] / guarda […] / la polvere fra le sue dita. Il silenzio – che è la casa dei mistici – pare essere un grande compagno del Nostro: C’è polvere – lo sai – nel mio silenzio, esso è quasi una chiusura nell’aspettativa di quel Dio pregato pure in una risposta al Montale del «Non chiederci la parola»: Svelaci quello che vorremmo dirti, / chiedici la parola mentre andiamo: / finché sarà un pensiero a custodirti, / come un salmo adesso ti preghiamo;​ ma pure quale attesa di quel qualcosa che manca: Vorrei fermare il tempo al chiaroscuro […] / vorrei che fossi qui semplicemente;​ tale “chiaroscuro” (allo scrivente) pare essere quasi una dimensione nella quale chi vive riesce a comunicare con gli scomparsi, o semmai il luogo della morte stessa, dove tutto – pur non essendo Luce – pare almeno più chiaro dell’ombra… 

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Nel suo pensiero Floris (in foto) si dice visitato da «fantasmi»: li sento, mentre parlano di me […] / l’abisso invoca la mia ombra […] / i fantasmi […] / temono l’alba e ingoiano i miei sogni.​ Poi, alla bella stagione che va e che viene, chiede: Lasciami l’ombra / sospesa sul confine delle cose… Floris teme per quest’ultima, quasi come se – caso mai ne venisse privato – finisse per mancargli quella parte di sé che gli rende possibile il commercio con l’Aldilà…

 

Il passaggio del tempo avvicina il poeta alla chiarezza, e in quella gentilezza (di cui parla anzitutto il postfatore, Ivan Fedeli) egli non sembra nella possibilità di superare questa condizione pacifica che la porta a dire: raccoglierò i miei giorni come spighe / finché sarà fiorito il mio balcone. Se lontano dai ricordi e dal suo «balcone» il Nostro dice: Ora vedo il deserto / presidiare le strade / col suo cuore di software, lo scrivente non può che giustificarne l’immersione domestica quale rifugio ultimo dello spirito. Questo come «ascetismo minimo» in un esistente a tasso valoriale nullo, in un tecno-nichilismo che già annoia ferocemente...