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La banalità mancata del bene

27/02/2023 10:01

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La banalità mancata del bene

L'editoriale - A cura di Letizia Cuzzola

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L'editoriale

 

La banalità mancata del bene

 

di Letizia Cuzzola


«Se non lo fai con piacere, non fare nulla per me. Non mi serve nessuno accanto che si metta a contare i favori».

 

Vivo di letteratura, nel senso che ci pago proprio le bollette a fine mese: lavoro come editor per una casa editrice, come critica letteraria scrivo su più testate, ho qualche pubblicazione all’attivo, insomma venisse a fallire il settore dell’editoria potrei andare a vendermi un organo alla volta. Eppure in questo mondo apparentemente idilliaco - in cui ogni scrittore o scribacchino sembra ispirato dagli dèi – si respira un’aria da zolfatara a cielo aperto.

 

Quando ho iniziato a fare questo mestiere, dieci anni fa, ero solo un’avida lettrice; nascevano i primi blog che scrivevano di letteratura e le recensioni viaggiavano libere selezionate solo dal gusto dello scrivente di turno. Poi è arrivata l’esplosione dei social: quelle che erano finestre sul mondo librario sono diventate portoni prima, verande dopo, piazze in ultimo in cui urlare il proprio manufatto come in un venerdì di mercato rionale. Il centinaio di autori accreditati che partorivano una creatura l’anno si sono moltiplicati, come batteri. E i critici letterari sono assurti a primari in grado di diagnosticare vita, morte e miracoli dei libri in uscita.

 

Non ho mai avuto uno spazio tutto mio, non ho mai sentito la necessità di tirar su una realtà in cui poter fare il bello e il cattivo tempo. A me le porte piacciono aperte: avere la possibilità di entrare o uscire da una redazione quando non mi stanno più bene le regole mi ha permesso di non avere mai condizionamenti, di giudicare un libro fuori dal suo autore e dalle logiche di mercato, promuovendolo o bocciandolo (in questo caso, i malcapitati possono confermare che non ho mai fermato la pubblicazione della recensione ma sono stati avvisati prima da una sorta di consulenza con le motivazioni della bocciatura). Non ho mai rivendicato l’aver riconosciuto un successo ma sono stata seduta in prima fila accanto all’autore nei suoi momenti di gioia, silenziosamente mi sono portata a casa la soddisfazione delle sue vittorie e le amicizie che questa dimensione mi ha regalato.

 

Ma non è così per tutti. Con gli anni ho imparato che in molti colleghi manca l’onestà intellettuale di riconoscere che siamo nessuno. Sì, cari compagni critici, non siamo nessuno. Pretendere che ci venga riconosciuto un potere è ammettere che abbiamo un problema – serio – con il nostro ego; vuol dire peccare di presunzione e smanie di grandezza che non ci dovrebbero appartenere perché la cultura non è questo. Non siamo la Santa Inquisizione che emette sentenze, non ci si deve alcun tipo di deferenza perché alla base del nostro operato – se espletato con coscienza – deve esserci solo l’amore per la scrittura, la lettura, l’arte della parola.

 

Vedo, però, molti e troppi appendere cappelli, giocare partite a Risiko come se aver intercettato un talento fosse una bandierina di conquista, un assoggettamento a una nuova divinità in grado di decidere le sorti dell’autore colonizzato, a cui accollare un debito di riconoscenza a vita, un mutuo da scontare a ogni presentazione, occasione di visibilità. È una soddisfazione personale aver avuto occhio, niente di più e niente di meno.

 

Sedetevi e prendete un calmante se serve ma non funziona così. Siete, siamo nessuno e nessuno ci deve niente e poco importa se fra qualche anno di quel che abbiamo scritto non ci sarà più traccia, non deve essere questo il nostro obiettivo: le nostre pagine devono lasciare il tempo che trovano perché l’unico padrone è il lettore, come Montanelli ci ha insegnato. Guardiamoci dall’esterno ogni tanto e chiediamoci se il bisogno di parlare di un libro è una necessità della coscienza o solo un esercizio di retorica e narcisismo. Torniamo con i piedi per terra, dietro le nostre scrivanie e lontano dalle piazze virtuali che usiamo male, malissimo: atteniamoci ai testi, se abbiamo qualche critica da fare a un autore chiamiamolo, scriviamogli ma evitiamo di metterlo alla gogna o di osannarlo come persona, non ce ne deve fregare nulla nel nostro ruolo di quel che è o fa fuori dalle sue pagine. Tanto più se è diventato un amico. Se abbiamo scelto di usare le nostre pagine come vetrina delle nostre recensioni postiamo il link e usciamo immediatamente, è il lettore a doversi fare un’opinione, il nostro lo abbiamo fatto.

 

Riscopriamo la banalità del bene: il passaparola disinteressato funziona meglio di ogni nostra recensione, perché noi – ripetiamolo tutti insieme – non siamo nessuno.