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Tra le ricerche poetiche di Paolo Gera

17/11/2021 00:01

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Tra le ricerche poetiche di Paolo Gera

Paolo Gera - Le ricerche poetiche - Puntoacapo - Le interviste - A cura di Paolo Pera

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Paolo Gera

 

Ricerche poetiche

 

 

Puntoacapo Editrice

 

 

Le interviste


A cura di Paolo Pera

 

Caro Paolo, ormai noi ci diamo vicendevolmente del “quasi-gemello di nome”, nevvero? Orbene: dai la tua visione (più integrale possibile) del tuo ultimo libro nato, Ricerche poetiche (puntoacapo Editrice, 2021). Le tre sezioni sanno anche a te, come fu per me, di cantiche “dantesche”? Di percorso iniziatico verso la non-parola, che è la poesia più alta?

«Tra me e te, oltre ai numerosi anni di differenza, peraltro ammortizzabili nella curva spazio temporale quantica, c’è solo una consonante di differenza, nel tuo caso labiale, nel mio palatale. In comune abbiamo molto disdegno, molta disillusione e un po’ di sana cattiveria. Che alla base del mio ultimo libro ci fossero delle suggestioni dantesche è innegabile. In uno dei componimenti immagino che la Commedia non sia mai stata scritta e gareggio con Dante nell’iniziare di nuovo l’opera attraverso l’elaborazione di una terzina iniziale che riecheggia “nel mezzo del cammin…”. Arrivo a comporre in endecasillabi e rime ABA diversi esempi, ma chissà perché mi rimane il dubbio che ci sia una versione migliore, già scritta da qualcuno… Dante rivale! Che superbia la mia! Il fatto che ci fosse una corrispondenza reale con le tre cantiche dantesche l’hai evidenziato tu. A questo servono i critici non ossequienti, ma accorti: a far emergere linee ispirative che agiscono nello scrittore a livello inconscio, come struttura profonda. E in effetti sì. La prima parte con il suo accumulo di materiali linguistici più disparati, i “rifiuti di scrivere” potrebbe corrispondere all’Inferno; la seconda parte, ispirata ai giochi linguistici di Wittgenstein, ha la dimensione terrena e dubitativa tipica del Purgatorio; la terza con il riferimento all’esperienza dei tagli trascendentali di Lucio Fontana, al Paradiso. Sì sì, ci sta.»

 

Mi raccontavi d’essere stato allievo e laureando dell’immenso Sanguineti presso l’Università di Genova, hai un ricordo affettuoso da condividere con noi? Lo consideri il tuo maestro? Nel caso insieme a chi, chi ispirò Paolo Gera?

«Fine anni Settanta, inizio anni Ottanta. Facoltà di Lettere in via Balbi a Genova. In moltissimi andavano alle lezioni di Fenzi, che si scoprì poi essere uno degli ideologi delle Brigate Rosse. Pochini rischiavano di frequentare l’auletta di Edoardo Sanguineti. Era senza denti, somigliava, come tutti sanno a Marty Fieldman. Mentre spiegava Boccaccio e Dante fumava Gitanes senza filtro una dietro l’altra, come le suggesse. Noi scrivevamo appunti e tossicchiavamo, quasi senza riuscire a scorgerlo “ché l’occhio nol potea menare a lunga / per l’aere nero e per la nebbia folta” (Inferno, IX, vv.5-6). Era cortese, sagace, spiritoso. Gli proposi una tesi assurda sulla Commedia che alla fine ottenne la lode, ma negli ultimi tempi si vedeva poco perché era stato eletto come indipendente nel PCI e a Roma, in Parlamento, ci andava eccome. In facoltà c’erano borsisti portaborse che lo corteggiavano come un fidanzato e in breve s’infranse il sogno di poter essere chiamato come suo assistente. Ma come poeta alla faccia se mi ha influenzato! Tutto il discorso che fa sul linguaggio e su un uso sperimentale della poesia che di quel linguaggio evidenzi le aporie e il carico ideologico, e poi il parodiare, l’unire il basso e l’alto, l’essere comunque materialistico e non lirico, ecco tutto questo lo sento fortemente come mio. L’altro grande maestro, non tanto come poeta, ma come intellettuale profondamente critico contro la società dei consumi, è ovviamente Pier Paolo Pasolini. Ma come tu sai, i due non si vedevano di buon occhio. Io cerco, nel mio piccolissimo, di comporre questo dissidio artistico e politico, di far fare la pace ai due grandi.» 

 

Sei un poeta civile, come ami spesso definirti, dalla vocazione sperimentale o, come preferisci dire, un ricercatore. Perché questa passione? Che cosa muove in te questo bisogno, questo bizzarrissimo fare?

«Siccome prima ho citato due ‘alti’ e siccome a me piace moltissimo mischiare i livelli, cito ora un ‘basso’, non di statura, ma perché applica la sua poetica alle canzonette, alla musica popolare. Giovanni Truppi scrive in un suo brano, L’unica oltre l’amore: “È quella cosa che ci divide tra chi simpatizza con chi vince / E dall’altra parte / Ovunque, da sempre e per sempre / Chi simpatizza con chi perde.” Ecco, la mia vocazione gramsciana dell’essere partigiano, dell’odiare l’indifferenza e l’ignavia, attecchisce su una cattiva educazione che mi ha sempre fatto schierare dalla parte dei più deboli. Ancora sono convinto, come Brecht, che nei tempi bui occorre cantare dei tempi bui. Attenzione, però! Al rischio della retorica e al buonismo bisogna rispondere con un progetto di ricerca concettuale e linguistica assolutamente progressiva: ho lavorato all’inizio sul materiale mitologico classico e biblico e l’ho raccordato all’orrore presente; ho proseguito attraverso il prosimetro e la cosiddetta “poesia ambientata”; sono arrivato a sfruttare il materiale scritto di ogni genere presente nella logosfera, per arrivare a un compost di versi che alla fine, comunque, è un grido di protesta.»

 

Oggidì chi è notabile per Paolo Gera? Nella poesia (anche e in particolar modo quella sperimentale) a chi guardi con interesse?

«In Francia all’opera di Jean Marie Gleize e alla sua rivista “Nioques”, per l’idea fortissima di creare pezzi letterari che, senza nessuna concessione all’autocontemplazione, fiutino l’oppressione territoriale e si organizzino come ordigni che possano esplodere a tempo debito.

In Italia alla ricerca ancestrale, organicamente politica di Anna Maria Farabbi e alla tensione emotivo/scientifica di Fabrizio Bregoli, che guarda caso sono miei compagni nell’esperienza del blog “Casamatta”. Riconosco una similarità di intenti nella poesia denunciante di Mauro Macario e tra i giovani mi sembrano decisamente interessanti, seppure con approcci e formulazioni diverse, Luca Bresciani, Bernardo Pacini, Jessy Simonini e il quasi gemello intervistante.»

 

Nelle tue Ricerche sembri dare l’annuncio di un termine abbastanza deciso del tuo percorso poetico, è davvero così? Non ti convincerai a ridestinare la Parola al nulla (ossia l’essere) della sua forma scritta?

«La risposta è sulla successiva pagina bianca.»

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Prima di quest’opera – a mio modo di vedere geniale e, forse, pure necessaria (almeno nei suoi intenti filosofici) – su cosa verteva il tuo scrivere? Che cosa di questo doveva portarti alle Ricerche?

«La poesia deve avere una componente performante. Il mio ultimo libro “Ricerche poetiche” si apre con la descrizione di un mio happening rurale dove piscio davanti al pubblico sulle parole appena scritte e lascio i fogli a macerare nella terra fertile. La mia prima esperienza è in effetti quella teatrale. Negli anni Novanta ho fatto parte come dramaturg di gruppi di ricerca e poi sono andato avanti da solo, con il teatro di base con gruppi di adolescenti, di bambini, di non vedenti. Ho scritto e rappresentato un testo a Modena dove Aldo Moro non veniva ucciso, ma adottato dalle BR che alla fine diventavano rampanti investitori. Un vecchio reperto pistolettante lo uccideva per sbaglio in un incidente domestico. Ho anche messo in scena una versione di Massa e potere di Elias Canetti con ragazzini quattordicenni. Ho scritto qualche romanzo influenzato da Philip K. Dick. Tutte queste esperienze stranianti sono confluite nel mio modo di scrivere poesie. Ho iniziato dopo i cinquant’anni, non per un odioso rigurgito narcisistico, ma perché ho capito che la poesia per la sua sintesi è un mezzo efficace di comunicazione, in questi tempi dove arrivano continuamente messaggi come una sparatoria in un saloon e la soglia di attenzione è ridotta al minimo.»

In conclusione, ci vuoi lasciare una riflessione somma da conservare nel nostro cuoricino immacolato?

«Metto insieme i titoli di miei tre brevi saggi su Sanguineti che sono tre versi a lui rubati in tre diversi momenti della sua vita poetica. 2004, 1982, 1951. Formano una terzina che nella sua estrema sintesi mi illudo possa catturare, per un frammento, anche il senso della mia ricerca e della mia visione del mondo: 

 

GLOBO GLOBALIZZATO È GRANDE GAG 

FACCIO SCRITTURA E NON SONO SCRITTURA 

MA FINALMENTE ANARCHIA COME COMPLICAZIONE RADICALE 

 

Leggetela dall’alto al basso o dal basso all’alto. O come volete.»