A cura di Paolo Pera
Pur nella loro veste d’innocenza, mascherata poi di semplicità, le prime due raccolte di Francesco Bennardo – tre a brevissimo – presentano un evidente percorso narrativo, che sta tutto nel velato autobiografismo del Nostro. La prima silloge di Bennardo, Invettive apotropaiche (Temperino Rosso, 2015), dimostra difatti il perché della seconda (Colpi di grazia, Aletti Editore 2017) che a sua volta vede quadruplicato il sé del poeta nella terza opera (Allo stato puro, in corso di pubblicazione per Gian Giacomo Della Porta Editore). La trattazione a seguire intenderà porre delle brevi annotazioni sul primo lavoro bennardiano, accennando fin da subito alla sua conclusione: in questa il Nostro – rileggendo L’infinito di Leopardi, e scusandosene umilmente – evidenzia ciò che l’ha spinto nella torre d’avorio del secondo libro, dove – ancora lì stanziato, e chissà per quanto ancora… – il suo sé si sparpaglia in quattro sfere emozionali che discutono conciliarmente tra loro.
Dice il poeta: «Sempre odioso mi fu quel vecchio al Colle, / e quest’attore, che dalla Città Bella / all’ultima campana assalto acclude. / Ma da fuori osservando, i troppo numerosi / ammassi di fedeli erranti, e disumani / consensi, e tristissimo e vano amore / a me la speme crolla, seppur tuttavia / il cuore ancora lotta. E come l’upupa / volo leggero fra quegli ovini, tentando / di capirne le ragioni: e mi sovvien un uomo, / barba fiera e indomita, e uno scapigliato / genio suo alleato, e un giullare laureato, / e miriadi d’altri eroi ancora. Così fomenta / ‘l desio che tal regime perda. Ma fate presto, / ‘che ‘lo naufragar m’è amaro in questa merda». Bennardo, che – fin da ragazzo – ha sviluppato un cuore profondamente politico, guardava la nostra Nazione (così marcescente) procurandosi un conato di vomito memorabile: chi non l’avrebbe di fronte alla putrefazione? Forse neppure i cantori del miglior macabro ne sarebbero esenti! Che tutto sia perduto è evidente: quel Capitale di cui il poeta invoca la morte («rivoltate il vostro mondo / e a morte il capitale!») impera indisturbato, in epoca di Covid esso può pure compiere agevolmente quel suo tanto agognato progetto neo-feudale senza che nessuno banfi più per timore d’ingoiare i batteri altrui… Insomma, se l’opera si apriva col moto di un giovane (giustamente) vetero-comunista ancora speranzoso (forse messianicamente?) che la rivoluzione sia in qualche modo possibile, la stessa si chiude pessimisticamente e quasi stoicamente con uno studioso che – come Montaigne – si confina nella propria biblioteca conscio di non poter incidere minimamente sull’essente, e che – di più! – tutto sia già prescritto: non certo dal destino ma da chi ne fa le veci. Diviene allora, quella del poeta, una poesia del fare quotidiano, delle piccole cose e soprattutto della contemplazione dei sensi.
Prima di questa giustificata “decaduta” Bennardo si esibiva in una sincera e pietosa commozione per la dilagata sofferenza dell’uomo, basti vedere il caso del fu “maestro trash” Osvaldo Paniccia, reso celebre dal sedicente critico d’arte Andrea Diprè («Poi, per due volte, venne un critico / nella mia dimora: / tizio strano, indefinibile, / figlio d’un tempo infausto; / provai per lui un misto / di abiatica simpatia / e diffidente repulsione»). Quest’ultimo inquietando coi suoi modi viscidi e sottilmente ridicolizzanti l’anziano e provato pittore ne ricavò le peggiori performance, rendendolo dunque risibile ai propri follower, sempre pronti a schernire col riso le più bizzarre (e per lo più dolorose) «opere d’arte mobili». Con spirito giornalistico Bennardo indaga allora sulla vita del Paniccia dimostrando con un lungo componimento (Nuovi sepolcri) che quel suo aspetto tremulo era conseguenza di una vita dura e di vere e proprie mutilazioni, quasi a umanizzare un personaggio divinizzato (ma negativamente, buffonescamente) entro il fenomeno del trash, tanto in auge nei primi anni del secondo decennio del duemila. Bennardo difatti pare frequentare molto quel fenomeno (poi sdoganato televisivamente da diverse personalità, tra tutte Paolo Bonolis…) durante i suoi vent’anni, si veda per esempio la passione rivolta all’iracondo musicista Richard Benson, che – preso quasi a maestro – è citato praticamente in ogni silloge poetica del Nostro:
«qui finanche la merda / avrebbe avuto valore / se l’uomo fosse nato senza il culo!»1; distanziandoci però dal giovanile “innamoramento modaiolo” per il trash (oggi ancora vivo, ma meno sugoso e molto più posticcio) terrei pure a dire qualcosa sulla vera poesia di Bennardo.
Ancora abitato da uno spirito rivoluzionario il Nostro si descrive così: «Estremo, non estremista / cantore del niente / tratteggio granelli d’idee / masturbazioni mentali». Insomma, il poeta sa di star lavorando sull’inutile con animo dolce e duro al contempo. Inutile per chi, poi? Per la quasi totalità dei pensanti, ma non di certo per i pensatori: la lotta, anche solo dialettico-retorica, contro questo ritorno contemporaneo alle condizioni lavorative d’inizio Novecento non pare interessare neppure i “neo-comunisti” (per lo più impegnati sul fronte dei diritti individuali: fuffa “elargita” dallo Stato capitalista per distrarre e soddisfare le anime in subbuglio). L’essere poeta – gravosa responsabilità – lo schiaccia: «Perché proprio io?, chiosai innocente», Bennardo ne farebbe dunque a meno? Probabilmente, giacché tutto ciò lo porta a concludere: «niente m’è dimora». Egli non ha casa e non ha tempo, non ha popolo digià che questo non tende più alla coscienza di classe. Col tempo anche l’estraneità al proprio mondo si tramuta: «Errando tra indegni afrori / per le vie di questo scherzo urbano / me ne sento straniero / e quasi mi compiaccio». Il mondo allora diventa un immenso non essere, qualcosa che c’è senza verità, senza consistenza, e che certo non merita alcun amore: «Un oggetto perso / e mai più ritrovato / esiste o non esiste? / Ecco, in questo confine / ho posto la mia residenza». Il poeta abita ormai il Niente che il mondo è, tutto preannuncia (per poter essere, anziché divenire nulla) la sua fuga e il suo auto-confinamento nella torre d’avorio…
La poesia di Bennardo, specificamente in questo primo volume (pur non mutando mai del tutto), presenta un elogio delicato, discorsivo e “inclusivo”. La versificazione è piana con qualche interessante invenzione linguistica. Lo scrivente si spinge pure a dire che sia, per ora, la più interessante e viva opera del poeta: animata infatti dal fuoco della giovinezza e da quell’impegno civile costretto – visti i tempi – a morire.
Note
1. Oltre a questo breve passaggio nella poesia Il mio Paese, l’autore ne fa pure un “ritratto” intitolato Padre Tortura: «Quante volte, Richard, / hai pensato che quelle urla turgide / echeggiassero solo nel tuo animo, / quasi a rimarcare / come fioca sottolineatura / un fulgore dionisiaco e maledetto?». Qui Benson è figura cristica, offrendosi in sacrificio al proprio pubblico urlante, permettendogli dunque di oltraggiarlo in cerca di espiazione: «[…] la tua fiammante figura / è l’icona. Richard, della nostra passione!».