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Mario Marchisio - La morte attiva - Aurora Boreale Edizioni

17/09/2020 01:01

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Mario Marchisio - La morte attiva - Aurora Boreale Edizioni

Mario Marchisio - La morte attiva - Aurora Boreale Edizioni - L'angolo della Poesia - Le recensioni in LIBRIrtà - Paolo Pera

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Mario Marchisio

 

 

 

La morte attiva


POESIE, RACCONTI, PENSIERI

 

 

Aurora Boreale Edizioni

 

 

 

L'angolo della poesia

Le recensioni in LIBRIrtà


A cura di Paolo Pera

Intorno a “La morte attiva” di Mario Marchisio

Parlare d’una raccolta così vasta e assoluta è quasi impossibile – digià che è uno dei tentativi, di Marchisio, di assemblare «l’unico grande libro di poesia» che scrisse mai –; mi limiterò allora, per sola mia incapacità e pigrizia, a circumnavigare il libro di questo maestro, di questo mio maestro. Faccio ciò – e lo ammetto per «purezza cardiaca» – per parlare pure della mia opera d’esordio (ma solamente di riflesso!), che riprende il tema di Marchisio nel sottotitolo: laddove Mario parla d’una morte attiva io ho parlato, su suo battesimo, d’una morte passiva… quella d’uno scheletro danzante, io; che scheletrico non sono! Ricordo, a tal proposito, quando conobbi Marchisio: non ero realmente in cerca d’un maestro, quanto di qualcuno che confermasse la mia arrogantissima impressione di saper già fare poesia, d’essere naturalmente poeta; la fortuna volle che Mario non fosse così indulgente con questa mia ottusità, e mostrandomi il bene e il male della mia prima produzione m’ha instradato nella ricerca della vera arte. Difatti – e non è la prima volta che lo dico – conoscere Mario fu una salvezza, se lo conoscesse un pubblico più ampio chissà quanti ne gioverebbero, quanta brutta poesia si autocensurerebbe e quanti altri starebbero maggiormente sulle proprie parole in cerca di quell’elemento necessario che è il ritmo, di cui sentiamo tanta mancanza. Difatti io non sapevo proprio che fosse… La verità è questa, come ebbe a dirmi l’amico Matteo Maragna: «Le nostre generazioni [ovvero i nati entro gli anni ottanta e novanta] sono state forzosamente private del linguaggio poetico, tanto quanto le precedenti ne furono disabituate», se pensiamo infatti ai coetanei di Marchisio (classe ‘53) potremo cominciare a identificare un minimo indebolimento nel tono poetico che cresce di decennio in decennio; se ora tocca alle generazioni Y e Z (quella di Maragna e la mia) dire in poesia, sarà ben facile selezionare dal mucchio chi possiede una minima consapevolezza del verso da chi non sa neppure che cosa sia.

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La disfatta di quest’arte è ben rappresentata da quelle raccolte di gruppo tanto in voga che Maragna chiama ironicamente «cataloghi di coscrizione», in questi viene fatto un bouquet di giovani gerarchizzabili in base alla loro vera natura poetica: che va annichilendosi là dove non appare alcuna interiorizzazione di quanto sia poesia. Ecco, nel linguaggio freddo e meccanico (quasi una conseguenza dell’educazione messaggistica) di certi miei coetanei, nell’idea che una scorretta composizione sintattica renda fighi, nella sola intuizione (o intenzione?) che non sa riversarsi in linguaggio, v’è la disfatta di cui parlo; ma chi assembla questi aborti crede certamente che la diversità che intercorre tra il bello e il brutto sia un valore, anziché un elemento decisivo. Possiamo solo immaginare come si evolverà questo disfacimento quando pure i membri della Generazione Alpha (post-2010) si improvviseranno versificatori...

 

Ebbene, cos’è che rovina noi giovani? Intendo oltre i tempi che viviamo, i tempi che contemplano il fascino pericoloso e libertario della bruttezza; ma perché lo fanno, poi? Semplice: ai più mancano gli strumenti per identificare la qualità, il valore, e i loro gradi; essi non sono certo acquisibili immediatamente, ma occorre almeno proporsi d’imparare: non si può mica stare tutta la vita a magnificare le Avanguardie storiche, occorre scendere a ritroso per vedere quanto hanno superato, ciò che le ispirò! L’errore del nostro tempo, e di chi lo abita (la maggioranza degli uomini), è la miseria che porta a vivere nella nozione semplice senza completarla con l’approfondimento, la miseria di vivere nel riflesso di

quella quinta superiore (che è ancora un grande traguardo per molti) che ci ha fatti sentire realizzati a vita entro quella cultura novecentesca che ritenne esaurito ogni percorso realmente utile all’uomo in quanto troppo antropocentrico; ma – soprattutto – l’atto di seguire i falsi e cattivi maestri che troppo spesso compaiono in televisione e online per guidare gli incolti nel loro recinto, riempiendo loro la testa d’opinioni individuali e inscindibili da chi le promulga: pare che le nuove scuole di pensiero (le nuove ideologie?) arrivino proprio dai mezzi di comunicazione di massa, e questo si rifà logicamente nella politica (in tutto l’Occidente…). Ebbene, come dice Marchisio in una sua recente intervista (da me redatta): «Chi resta ignoto o ai margini delle posizioni che contano ha infatti il vantaggio di poter perseguire il proprio ideale estetico al riparo da fastidiose interruzioni e da catastrofiche distrazioni, cercando di essere utile a chiunque gli chieda un consiglio ma non cedendo mai al demone della facilità». Chi resta ignoto può permettersi di cercare la bellezza e pure d’insegnare come cercarla, insomma. Non parrebbe dunque un caso se una non troppo discreta parte dei poeti maggiormente rinomati in questo bel Paese non abbia quasi mai scritto un solo vero verso in tutta la vita: la potenza dei riflettori deve aver bruciato tutto il tempo utile che questi ebbero per limare le bozze che infine consegnarono al loro prestigiosissimo editore…

 

Pare che perseguire l’esempio di costoro – la loro non-poesia, il loro anti-linguaggio – conduca alla gloria, mentre cercare la bellezza e la verità porta all’anonimato: sarò dunque orgoglioso di quest’ultimo, temo.

Ora desidero parlare finalmente dell’antologia marchisiana che finora ho solo preso a pretesto. Torno al dettaglio che divide la mia morte da quella di Marchisio: quando, sentendomi leggere alcuni testi assai depressi (e un po’ corazziniani, come scrisse nell’introduzione che mi dedicò), chiamò passiva la morte di cui parlavo non capii molto bene, poi arrivai – ma solo conoscendolo – a intendere appieno: chi rende attivo e valido il trapasso – in Marchisio – non può che essere Dio, il tutto in cui ci immergiamo dopo l’esistenza, la morte dunque (piana o dolorosa) diventa essenziale, giusta e «augurabile» (difatti, nel suo libro, Marchisio non si sottrae [poeticamente] dal fare quest’ultima cosa).

 

Altresì, quanto proponevo io era un timore per il passaggio al Nulla, l’evento – il morire! – era da intendere quale cancellazione; dunque il carattere passivo veniva dall’immobilità agghiacciata per l’idea dell’insensatezza d’esserci, per la sua fondamentale inutilità (cosa assai normale da pensare internamente a un ateismo volto al patetico; non per nulla l’ateo tende a riempire la vita di godimento materiale per sopravvivere alla consapevolezza del Nulla [quasi sempre imminente…]. Io invece, pur condividendo tutto ciò, perseguivo uno stile di vita austero e monastico-medioevale: dove v’è solo contemplazione, studio, e tanta negazione del piacere. Cosa abbastanza problematica per chi non crede). La via non poteva certo essere la riscoperta della trascendenza divina, ma semmai l’accentramento dell’ideale (di bellezza e verità, in questo caso) in me, a surrogare il Dio. Ora, tenendo in mano il possente volume di Mario sovviene una domanda: «Come può, in circa quarant’anni di poesia, consegnarci solo quest’ampio libro?» Ci aspetteremmo, insomma, una Recherche più vasta, una cattedrale più alta! Invece l’edificio che ci arriva in dono è un’opera talmente perfetta d’aver espulso da sé ogni pelo nell’uovo, come accadde pure in Valéry: non solo singoli versi dalle opere, ma pure le singole opere incapaci d’armonizzarsi appieno con la musica interiore del poeta (ovvero quella infusa nell’opera). Aspirare a certe vette di riflessione penso sia il desiderio d’ogni vero versificatore: essere una musica e produrre sinfonie (sinfonie di pensiero!), libro per libro.

 

L’immondizia di cui la mia generazione s’inonda le orecchie, altresì, non può che allontanare irrimediabilmente da questa comprensibilità. Forse solo il silenzio – quel silenzio che è Dio? – avvicina davvero a tale sinfonia del sé, che è solamente l’espressione più vera del pensiero, la chiarezza possibile di cui Mario ci parla in numerosi volumi di critica letteraria. Solo nel silenzio l’animo turbato e la mente caotica si mostreranno a sé stessi, preparandosi così all’organizzazione sistematica per proprio assenso. Oggi chi vive in detto caos sente di doverlo espellere nell’opera poetica mediante altrettanto caos, a mo’ di purga cerebrale; ma la poesia non sta nel caos, tutt’altro: la poesia è una visione cristallina che scavalca il tempo. Fondamentalmente quello che oggi intendiamo quale poesia non è altro che l’espiazione compulsiva di scribacchini domenicali: un’azione fine a sé stessa, buona solo per affrontare il lunedì con una sembianza di pace che raccoglierà la guerra interiore fino al venerdì – in sostanza, il Leopardi de Il sabato del villaggio ci aveva preso! Concludo la mia divagazione per nulla esplicativa sul volume di Marchisio – lo ammetto… – invitando a cantare la poesia, a leggere il poeta nel modo da esso indicato: solo così può realmente essere inteso quel ritmo inscritto nell’atomicità del verso, la chiusura nella lettura mentale – pari a quella d’un’opera saggistica – devia invece dallo scopo della poesia, che è quello d’essere musicata dalla voce. Marchisio, lo noterete, non può essere letto interiormente: ne perderemmo la grandezza, che si schiude rendendo alla parola il suo corpo; in fondo, leggere poesia è come anticipare il Giudizio universale.


Nella foto in basso Paolo Pera, a sinistra, col maestro Mario Marchisio. Al centro la silloge di Pera, La falce della decima musa – La morte passiva d'uno scheletro danzante.

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