Le interviste
A cura di Massimo Anania
Vincitore del Premio Tenco nel 2021, in oltre 40 anni di carriera Enrico Ruggeri (nelle foto di Stefania Bonetta), ha scritto pezzi di storia della musica italiana, per se stesso, per i Decibel e per altri grandi artisti. Affonda le sue radici nel punk, in bilico tra rock e synth pop senza mai rinunciare alla melodia. Al cantautorato affianca l’attività di scrittore: tra gli otto libri pubblicati l’ultimo è il best seller “Un gioco da ragazzi” (La Nave di Teseo). Conduttore televisivo e radiofonico, Enrico Ruggeri ha vinto due volte il Festival di Sanremo ed è Presidente della Nazionale Cantanti.
Il suo ultimo lavoro “La Rivoluzione” (Anyway Music), disponibile in fisico e digitale, è un disco che parla di rapporti umani, di sogni adolescenziali e di una generazione che si è scontrata con la vita: undici brani che delineano un concept album autobiografico, con racconti e suggestioni esaltati dall’inconfondibile timbro vocale di Enrico e dalla cura del suono in fase di registrazione.
In occasione del suo ultimo tour, partito il 16 luglio scorso accompagnato dalla band composta da Paolo Zanetti (chitarre), Francesco Luppi (tastiere), Fortu Sacka (basso) e Alex Polifrone (batteria), abbiamo intervistato il cantautore ripercorrendo la sua carriera dagli esordi al suo ultimo lavoro.
Gli inizi
Com’è cominciato tutto?
«All’inizio era un hobby e facevo musica degli altri. Poi ho iniziato a scrivere qualcosa e quasi senza accorgermene è arrivato il primo gruppo e poi il primo album.»
Quali erano i tuoi sogni all’epoca? E quelli di adesso?
«All’epoca sognavo di fare un disco, magari due, ma la realtà ha superato di gran lunga la fantasia.»
Qual è stata la prima canzone che hai scritto?
«“Vivo da re” insieme a Silvio Capeccia, avevamo sedici anni.»
Cosa la lega all’ultima che hai scritto?
«Sicuramente il tentativo di fare cose diverse dagli altri. Negli anni ho continuato a cercare dentro di me e messo alla prova le mie potenzialità per soddisfare l’esigenza di esprimermi e dire quello che
penso e quello che provo.»
Come sono cambiati i tuoi testi negli anni?
«La cosa positiva dell’invecchiare è che ogni cosa è sempre diversa, vedi il mondo per quello che è stato e cambia il modo di guardare il presente. Poi sono sicuramente migliorato dal punto di vista poetico.»
C’è una figura che ha ispirato la tua musica o il tuo modo di vedere le cose? Un insegnante, un cantante, uno sportivo o un poeta?
«Ho avuto la fortuna di vivere negli anni dei Deep Purple e dei Led Zeppelin, di John Lennon e Bob Dylan, di David Bowie e Lou Reed, e poi è arrivato il Punk. Ho imparato tanto da tutti loro, sicuramente hanno influenzato il mio modo di fare musica ma non al punto da assomigliare a uno di loro.»
C’è una cosa che avresti voluto fare ma non hai fatto?
«No, negli anni ho fatto tutto quello che volevo: dischi, libri, televisione e radio. Ho sempre voluto raccontare storie e ci sono riuscito. Poi la vita è molto strana e succedono cose che non avevi previsto o immaginato e potrebbero esserci anche altre novità in futuro, così come è successo negli anni scorsi.»
C’è una canzone che non hai mai pubblicato e che conservi come una foto del cuore?
«Ho pubblicato tutte le canzoni che ho scritto, anche quelle più intime e personali, solo non le canto dal vivo.»
I concerti
Hai fatto più di tremila e trecento concerti: ti ricordi il primo?
«Mi sono esibito all’oratorio quando avevo quindici anni, cantai “We use to know” dei Jethro Tull. Lo dissi anche a Ian Anderson quando lo incontrai e lui si limitò a sorridere.»
E quello memorabile?
«A San Paolo del Brasile, facevano concerti tutte le domeniche. Io ero un perfetto sconosciuto e dovetti mostrare i documenti e il pass per accedere al palco. Iniziai il concerto davanti a cinquemila persone e lo terminai davanti a ottantamila e quando uscii dovettero scortarmi tra la folla.»
Raccontami del non concerto dei Decibel
«Dovevamo muovere le acque in qualche modo, e così abbiamo annunciato un concerto in un locale anche se sapevamo che non avremmo mai suonato in quel posto. Abbiamo fatto stampare dei manifesti e durante la notte li abbiamo affissi vicino alle scuole, alle sedi dei sindacati e dei centri sociali. Era il primo concerto Punk a Milano e arrivarono circa in trecento per l’evento. I Punk all’epoca non erano ben visti e quella sera giunsero anche cortei studenteschi, avanguardie operaie e gruppi di fascisti e si menarono un po’ tutti mentre noi guardavamo dal balcone della casa di fronte. Il giorno dopo tutti i giornali parlavano di noi e degli scontri durante il nostro concerto e due mesi più tardi eravamo in studio a registrare il nostro primo album.»
Curiosità
Che rapporti hai con la morte?
«La morte è un evento ineluttabile e per me è sempre stato uno stimolo a fare cose per cui essere ricordato, ho sempre cercato di fare cose interessanti per lasciare un segno del mio passaggio.»
Hai la possibilità di incontrare un musicista del passato: chi ti piacerebbe incontrare?
«Mozart, era sicuramente un uomo e un musicista controcorrente.»
E se fosse uno scrittore?
«Dostoevskij»
Se tu fossi un super eroe?
«Tra i vari superpoteri sceglierei la capacità di vedere attraverso i muri, credo che sarebbe divertente.»
Hai fatto l’insegnante in una scuola media: cos’è per te l’insegnamento?
«Fare l’insegnante è un po’ come fare il cantante perché devi affascinare dei ragazzi, devi suscitare il loro interesse. È un bel lavoro solo che in Italia è sottopagato e ti devi alzare al mattino. Negli ultimi anni ho tenuto corsi di storia della musica al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, ma è un approccio diverso.»
Devi scrivere un messaggio, infilarlo in una bottiglia e affidarlo al mare. Cosa scriveresti in quel biglietto?
«Pensate con la vostra testa.»
Il nuovo album
Qual è il filo conduttore dell’album "La Rivoluzione"?
«È la storia del passaggio dall’adolescenza all’età adulta di una generazione che è passata da Carosello a piazza Fontana, dal terrorismo alle Brigate Rosse fino all’Eroina e Aids. È un lavoro molto intimo che tratta di amicizie, di dolori, di lotte, di chi c’è la fatta e chi no. Però sono stati anche anni di grandi ideali, di lotte sociali e soprattutto di musica meravigliosa. E io vivo le cose con lo stesso fervore di allora però col ragionamento dell’età adulta.»
Perché in copertina c’è una foto di scuola?
«Quando mi è capitata tra le mani questa foto ho capito subito che era la più adatta.»
Tra le tracce “Non sparate sul cantante” è un ironico duello in stile western di Sergio Leone a difesa degli artisti, però?
«Ci sono tanti bravi artisti ma non sono quelli sulla bocca di tutti, non tutti suonano per l’esigenza di comunicare.»
Come è cambiata la musica, a livello internazionale, dagli anni 70 a oggi?
«È cambiato tutto, il meglio è stato fatto.»
I cantanti possono ancora influenzare le masse come nel secolo scorso?
«No, i brani spesso sono vuoti.»
Chi è “Alessandro”?
«Alessandro è un grandissimo amico, un ragazzo pieno di vita che però adesso è immobilizzato dalla malattia, il pezzo è il racconto di me che vado a trovare il mio amico.»
“Gladiatore” racconta di gladiatori che si spezzano ma non si piegano: ti senti un gladiatore?
«Mi rivedo abbastanza in questo pezzo, sono un salmone che risale la corrente, combatto sempre e pago a caro prezzo ogni distrazione.»
“La mia libertà” è il racconto di un suicidio in stile Jacopo Ortis che è stata paragonata anche a “L’avvelenata” di Guccini.
«È la lettera che scriverei se mi ammazzassi, ma non ho intenzione di farlo, naturalmente.»