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La pietà per l'esistente agognata da Paolo Pera

27/10/2021 01:01

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La pietà per l'esistente agognata da Paolo Pera

Paolo Pera - Pietà per l'esistente - ensemble - Le interviste - A cura di Salvatore Massimo Fazio

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A cura di Salvatore Massimo Fazio

 

Dieci domande a Paolo Pera, il giovane critico che collabora anche con il nostro blog che è risultato essere il caso del ritrovato Salone Internazionale del Libro di Torino, 2021, con il suo 'Pietà per l'esistente' (Ensemble). Spietato e disinteressato al politicamente corretto, l'autore albese, non le manda a dire utilizzando una raffinatezza e una scrittura degna dei miglior talenti artistico culturali dell'ultimo '900.

 

 

Com’è iniziata la tua passione per la poesia?

Passione? Non so se sia giusto chiamarla così, io ne sono ossessionato! La poesia è la mia ossessione, tutto – nelle mie contorsioni mentali – deve esserlo, sennò non merita. Ho comunque cominciato a praticarla “tardi”, ero già grandicello (ventuno anni). Prima mi davo ai fumetti grotteschi, effettivamente mi mancano. 

 

Cosa rappresenta per te la poesia?

Un mondo altro nel quale riprodurre svariatamente questo, ma pure quel verbo dell’Altro mondo – sebbene nella sola forma alta della parola, lirica (che quasi mai ricevo davvero) e non “archibugio linguistico” –. Più praticamente è l’oggetto con cui mi distraggo e diletto, così, aspettando il tempo giusto per tra-passare.

 

Come rapporti la realtà che vivi alla poesia? 

Non concepisco una delimitazione netta, nella mia realtà cerco quegli elementi che sanno d’irrealtà, di magnifico e bizzarro. Ma poi, molto più spesso, riduco in versicoli scene di odierna bruttezza contemporanea: amo, insomma, dimostrare un che di brutto nelle cose, l’orrore che gli uomini sono. Alcune volte, però, di fronte alla bellezza di certi individui si rimane senza parole: come di fronte al sublime, ma sono casi rarissimi.

 

La poesia è un punto di partenza?

Che domande difficili… La poesia è qualcosa di indicibile, ineffabile (sto infatti faticando a dirne). È una voce silenziosa, voce di bellezza. Punto di partenza? Può essere, chi è poeta vota la sua vita alla ricerca di quella voce. Spesso per metterla in un bello stilo, ma v’è pure chi cerca suoni e ritmi differenti. I peggiori sono quegli individui – abitati da vanità e presunzione – che senza ispirazione alcuna pretendono tributi “rei” d’aver scritto due parole andando a capo. La poesia si fa se c’è ispirazione, e il poeta vero è umile, buono… Troppi non lo sono, e questo mi turba: è questo, quello della poesia, un mondo che gronda inautenticità. Umana e poi “artistica”.

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Quali poeti ti hanno maggiormente influenzato?

Per lo più abito toni crepuscolari, e in questi vario. La mia prima opera, La falce della decima musa (presto ripubblicata), era un bel po’ corazziniana. Sebbene il piagnisteo fosse stemperato con un “allegro nichilismo”: il Tutto è un nulla che l’uomo riempie di essere? Bene, allora tutto è ridicolo, finto; e di ciò si può ridere grassamente. Ora cerco una giocosità paradossale, Palazzeschi quindi. Ma anche un po’ Gozzano. Da sempre produco immagini surreali: penso a Jarry, a molti film e cartoni animati (anche improponibili): ho sempre avuto un amore smodato per il kitsch, il macabro. La mia seconda opera edita lo dimostra, è infatti una riscrittura del celebre Pierino Porcospino! Il primo amore in poesia, però, fu Ezra Pound: l’Omero del XX secolo, dicono alcuni; amo particolarmente quello che viene definito il suo Paradiso, ossia la parte ultima dei Cantos, dov’è ammutolito nella contemplatio del divino (e degli errori). In sostanza rifuggo il tragico e cerco per lo più il tragicomico, cosa più vera ai miei occhi. Ammetto pure che la mia posizione filosofica, di debolista, si senta decisamente in alcune opere, talvolta pessimisticamente (alla Montale?).

Giovanissimo, sei tra i più quotati critici di poesia contemporanea, ma non solo, nonché poeta: oggi lo puoi affermare?

Dici? Affermato non direi, dài. Mi dibatto solo sui social, non sono di certo accreditato nelle accademie o simili… È però vero che nel corso di un anno o poco più a questa parte mi sono interessato molto all’opera di personaggi variegati, a mo’ di esercizio teoretico, ermeneutico. Quello che mi affascina nella poesia è l’essere umano che l’ha scritta, voglio rintracciarlo nei versi: difatti amo assai di più i cosiddetti “diaristi” (purché leggibili, e non è scontato dirlo) agli aulici, bucolici, ecc. La poesia è l’uomo che scrive, l’uomo che la sente. Occorre fuggire le retoriche aggressive, altisonanti, vorrei una poesia che proponga un’anima da abbracciare. Ciò è necessario, non altro.

 

La poesia, parafrasando Cioran con i suoi aforismi, può essere terapeutica?

Ma ovviamente, Massimo, da Pascoli in avanti è così per diversi poeti italiani: pensa a Saba, alla Merini e, chessò, a tanti versaioli odierni… Ma lo è pure quando non lo vorrebbe essere, mettiamola così: se il pensiero, dissero un tempo, è “secrezione del cervello”, la poesia sarà la regina delle suddette. E come tale va espulsa, occorre svuotarsi da essa, e quello che esce esce – ma si può, e si deve, sempre limare… Questo i versaioli non l’intendo, poveri –. Ma non pensiamo a uno svuotamento nel solo senso “osceno”, l’è pure in quello kenotico… È un atto d’umiltà scrivere una poesia, siamo – scrivendola – cantori dell’essente e non più di noi stessi soli. Ma vallo a dire ai versaioli…

 

Hai scritto più di un libro sino a giungere ad una delle maggiori case Editrici indipendenti: ti rendi conto del tuo talento miscelato al coraggio o vivi ancora in un limbo di onirismo?

Sì, temo di essere nel Limbo… Non so se sia sogno per tutti o solo per me, va’ a capire. Di certo Carroll ci aveva visto giusto… Il Paese delle Meraviglie era tutto nel sonno del Re Rosso, ricordi? Mah, un po’ di talento credo d’averlo sì, e me ne compiaccio pure!, ma lo darei tutto via per avere in cambio un’esistenza più “normale”, ordinaria, mediocre. Essere creativi dà molti dispiaceri, lo sai bene pure tu, caro Massimo. Comunque sia, dài, Iddio – a quanto pare – ci ha voluti differenti, e noi dobbiamo ringraziare e non sprecare neppure un minuto d’esistenza, né soprattutto lasciarci violentare dall’incomprensione altrui. Per il nuovo libro, Pietà per l’esistente (Ensemble, 2021), un grazie infinito va a te per aver creduto nel valore del mio lavoro. Un grazie lungo un secolo! Speriamo pure che le persone se ne incuriosiscano, dato che tratta temi etico-politici contemporanei...

 

Paolo Pera è anche un artista figurativo: ti sei diplomato al Liceo Artistico di Asti. C’è attinenza con la poesia che esprimi?

Secondo me sì, lo dice anche una mia cara amica storico dell’arte: più con l’opera fumettistica che con quella pittorica o scultorea. Quest’ultima vede calchi del mio volto deformati, sfregiati a sottintendere una mutazione (o un insulto) che viene all’individuo dal di fuori come dal di dentro. Quella pittorica è un esercizio di riacquisizione del corpo da parte dell’io, oltreché mero citazionismo (oppure no?). Il fumetto altresì – così come i racconti e certe mie poesie di cronaca quotidiana – lasciavano emergere l’assurdo che ricavo dal mondo. Ma, oltre al “cos’è detto”, v’è anche una familiarità nella propensione all’annullamento di quanto attornia il pensiero dell’uomo (ossia i luoghi abitati) per favorire il non-luogo del pensiero. È difficile da dire. Nel fumetto ciò si traduce in personaggi che abitano un bianco riempito da linee verticali a scendere, in poesia questo è spesso ridotto a riflessioni e scenette sospese nell’indefinito. Quanti mi dicevano, come critica paterna, «Sì, ma dove siamo?». Non siamo…

 

Riconosci maestri contemporanei?

Sì, ne conosco personalmente molti e ne riconosco ancora tanti altri. Quello che mi felicita è l’essere finora riuscito a incontrare e dialogare con ognuno di questi, da me stimati alla follia. Non so stare senza maestri, sono necessari. Le mie giornate sono infine un dialogo interminato coi miei maestri, un pensiero costante a loro che – infine – sono pure i miei più cari amici.